Tuttolibri, 13 novembre 2021
Intervista allo scrittore Selim Özdogan
«Con il mio nome, è quasi impossibile essere riconosciuto appieno nell’ambito della letteratura tedesca. Tutti i gruppi di minoranza possono raccontare una storia di quando sono stati emarginati, espulsi, spinti nel ghetto». Benvenuti in Germania, anno 2021. Selim Özdogan ha appena praticato lo yoga quotidiano: 45 minuti più le lezioni che impartisce a Colonia, il secondo lavoro dopo quello di scrittore di romanzi, racconti e libri per bambini. Inspira ed espira, come il suo detective Nizar Benali protagonista di I sogni degli altri, prima di rispondere alle domande. Le pause di riflessione sembrano attimi di imbarazzo. invece sono il modo per connettersi meglio col concetto che vuole esprimere, concentrato al massimo, in poche pesate parole come un muscolo alla massima tensione nel più difficile degli «asana». «La pratica è la possibilità di mettere in comunicazione spirito, corpo e anima», dice, «aiuta a fare chiarezza dentro di sé a molti livelli».
Quanto più lontano c’è dai personaggi che popolano il mondo dello «slum» di Westmarkt, una città fittizia (ma molto realistica) che sta da qualche parte in Germania tra il Reno e la Ruhr, una specie di prigione a cielo aperto da cui è difficile scappare per quelli «nati stranieri», che stranieri resteranno. Spacciati, incapaci di riscatto. I turchi di Özdogan sono scivolati presto nell’universo della criminalità e della droga che promette soldi facili. Tutti tranne uno, quello che è riuscito ad alzare la testa. Inspira, espira, lui ce l’ha fatta a cambiare un destino segnato, o così almeno crede.
Özdogan, il suo libro è un viaggio nella terza generazione di immigrati in Germania che sognano l’affermazione sociale e restano intrappolati nell’illegalità. Ma è anche una danza a ritmo di rap nel darknet, dove abbondano le droghe sintetiche. Perché ha scelto di raccontare questo mondo?
«Ho una buona conoscenza del tema, perché nei primi Anni 2000 mi sono appassionato ai forum in rete in cui si discuteva di come produrre gli stupefacenti chimicamente. Ho iniziato a frequentare questi gruppi virtuali, cercando di capire le regole che li dominavano. Li ho seguiti e ci sono scivolato dentro. All’epoca si parlava di sostanze prodotte in Cina. Sul darknet trovavi anche i manuali per sintetizzarle artigianalmente. Privacy, sicurezza, internet e illegalità hanno profondamente a che fare con la nostra libertà. Questo collegamento sarà sempre più protagonista delle nostre vite: più libertà, meno sicurezza, più sicurezza, meno libertà. Credo che questa questione sia molto attuale».
Il filo rosso del romanzo è il mefedrone, una sostanza psicoattiva simile alla cocaina negli effetti. Lei l’ha mai provato?
«Tutti quanti noi viviamo in una società in cui il consumo di droghe illegali esiste. Fino al 2008 questa sostanza sintetica era disponibile e io nel 2007 l’ho comprata. L’atto criminale è andato in prescrizione, per questo ne parlo. Essendo interessato alle trasformazioni del corpo, mi affascinava capire cosa accade alla percezione: il mefedrone apre le emozioni, ti fa sentire tutto più velocemente e amplificato, come gli eccitanti, l’assunzione di molto caffè, come lo speed o la coca, appunto».
C’è un legame tra il darknet e il ghetto, ambientazione del romanzo?
«Nel ghetto degli esclusi c’è quella che in tedesco si chiama "Verbindlichkeit", un legame che è come un debito d’onore tra le persone. Nella rete, invece, non c’è un legame concreto. Tutti quelli che conosci possono scappare nel nulla, protetti dietro ad identità false. Per questo, non valgono i valori che impari in famiglia. Il mondo virtuale non è una famiglia e non può sostituire gli scambi reali».
I personaggi con background migratorio del libro condividono un sogno, che per la maggior parte di loro non si realizzerà mai: fare i soldi. Ma davvero il riscatto e l’integrazione passano per forza da lì?
«L’integrazione è un dibattito fasullo, in sé difficile, perché passa attraverso la cultura, in una società. Il vero problema di chi è immigrato nei Paesi occidentali è di natura economica, non culturale. Lo svantaggio, la debolezza di uno straniero si misura con le minori possibilità e con il potere spesso inaccessibile. Da parte dello Stato tedesco, ad esempio, non ci sono per niente segnali chiari che si voglia superare un certo razzismo strisciante e quotidiano».
Anche lei, figlio di migranti turchi, ma nato in Germania, cresciuto bilingue, scrittore tedesco vincitore di premi letterari, ha vissuto episodi di razzismo?
«Parto da lontano e arrivo a me, così da dimostrare come le cose, anche a distanza di decenni, non cambiano poi molto. Mio padre non arrivò dal Bosforo per motivi economici, ma perché lì non poteva studiare. Giunto in Germania, ad aspettarlo non c’era altro che lavorare nel settore automobilistico, non certo da dirigente. Una realtà così porta problemi per forza, se per quanta fatica facevi all’epoca, eri visto sempre come un "Gastarbeiter". Ieri come oggi, ti fanno capire che in qualche modo non farai mai parte davvero di una società. L’aspetto fisico "sbagliato" te lo porti dietro come uno stigma. Io so che con il mio cognome in questo Paese è quasi impossibile essere riconosciuto in pieno nell’ambito della letteratura tedesca. Racconterò un esempio che per me è stato particolarmente doloroso: non volevo che pesasse sul mio curriculum, ma non ci sono riuscito al 100%».
Ci dica.
«Ero il finalista ad un premio letterario e il presidente di giuria mi chiamò sul palco. So che non l’ha fatto per cattiveria, più per istinto. A un certo punto fa salire per premiarmi e dice: "Siamo particolarmente contenti quest’anno di dichiarare tra i vincitori anche un cittadino straniero". Non voleva essere razzista, ma di fatto ha insinuato che io non fossi stato scelto per qualità artistiche, perché ero un autore di talento, ma perché ero immigrato, che poi non è vero perché io sono nato qui. Tutte le minoranze in Germania possono raccontare una storia simile di emarginazione».
Rabbia, rassegnazione, depressione. Che emozioni esplodono in lei quando subisce discriminazioni?
«Sono cresciuto su questo suolo, ho sempre scritto libri in tedesco e ovviamente io appartengo a questa terra. La mia reazione è cambiata negli anni: all’inizio ero molto arrabbiato e impaziente, sentivo di avere le mani legate. Si sviluppavano una forza e una irritazione potenti. Poi ho capito che faccio parte del sistema, ho sempre pagato le tasse in Germania e sono parte integrante di questa società. E allora, non è più un mio problema se alcuni non capiscono».
Parlando dei turchi tedeschi, ad esempio, l’isolamento sociale non crede sia in parte anche frutto di una chiusura della comunità su se stessa? A proposito del rap, molti artisti a Berlino divenuti star in patria, cantano per scelta solo in turco.
«Il razzismo è sempre difficile da spiegare, perché le persone hanno paura di tutto ciò che è straniero. È accaduto in tutte le società. Qui in Germania non va dimenticato che ci sono state persone con background nazionalsocialistico che hanno occupato posizioni importanti dopo la fine del nazismo. Non si può chiudere gli occhi e non dire che non abbia avuto influenza. In generale, non si tratta di trovare i colpevoli della mancata integrazione. Di certo non sono i turchi. Se io mi sento accettato in una società, mi sento un ingranaggio necessario. Dentro un processo di opposizione nasce per forza, da qualche parte, la criminalità. La comunità turca cosiddetta, comunque, non esiste: è un amalgama di 3 milioni di persone, che in comune ha solo l’origine».
Ma a differenza di quel che accade nel romanzo, crede che ci sarà mai in Germania un cancelliere di origine turca?
«La società capitalistica promette questo, che se lavori avrai i soldi e diventerai ricco, ma non corrisponde alla verità. Non tutti possono uscire dal ghetto, abbiamo bisogno di persone che lavano le auto e portano in giro i pacchi. Quel che deve cambiare è il modo di trattare gli immigrati. Questo scatto è stato ritardato, andava fatto molto tempo fa».
La Turchia ha perso definitivamente il treno per entrare in Europa?
«Sì, non vedo questa possibilità. Si tratta di 80 milioni di persone da assimilare, inghiottire, che non sono la Romania o la Bulgaria. E si tratta prima di tutto di una questione economica. Vorrei dire però che, nel verso opposto, la Ue ha perso parecchio tempo fa il treno per agganciare Ankara e portarla pian piano sotto l’egida europea».
Lei è insegnante di yoga. C’è una somiglianza tra la pratica della meditazione orientale e la scrittura? L’atto di respirare un mondo e restituirlo poi all’esterno non è molto dissimile dal gesto letterario di respirare una cultura e tradurla in letteratura?
«Nello yoga c’è un aspetto corporale assente nella letteratura, ma sono pienamente d’accordo, sì. La somiglianza è palpabile per me. Il mondo della pratica meditativa però è più onesto, mentre la scrittura ammette la finzione, la bugia. Il respiro è la cosa più importante che abbiamo, e lo diamo per scontato. Chi controlla la respirazione, controlla tutto. Riesce a dominare anche le proprie paure».