La Stampa, 12 novembre 2021
Cpr, la vergogna di Torino
L’Ospedaletto non c’è più. Cancellato d’ufficio – e non senza qualche polemica – dopo la morte di Mamadou Moussa Balde, nato in Guinea 23 anni fa, e suicidatosi mentre si trovava in «isolamento sanitario»: ovvero dentro Ospedaletto del Cpr di Torino: il centro per migranti in attesa di rimpatrio. Era il 22 maggio scorso.
Un mese fa avevamo detto che i tentativi di togliersi la vita da parte degli ospiti della struttura – in molti casi si tratta di simulazioni – erano più di venti. Adesso i numeri sono schizzati in alto come nessuno si aspettava. Dall’inizio di settembre all’altro ieri, nel centro di corso Brunelleschi, 57 immigrati hanno tentato – o fatto finta – di uccidersi. Ed il numero è impressionante. Perché la questione, a più di un mese dalla denuncia de La Stampa, non è ancora stata affrontata dal punto di vista amministrativo. Cioè: esaurite un paio di riunioni in Prefettura, al complesso di corso Brunelleschi, che riceve immigrati da tutta Italia, tutto è continuato come se nulla fosse accaduto. Non sono state adottate strategie per evitare il ripetersi di questo pericolosissimo film. Non sono cambiate le regole. Tanto che la chiave trovata da molti ospiti per riuscire a sfuggire alle maglie dei rientri in patria coatti, continua a far lievitare le statistiche.
Cinquantasette ragazzi sono finiti nei pronto soccorso degli ospedali più vicini – il Martini e il Maria Vittoria – per quelli che la burocrazia chiama «gesti anti conservativi». Hanno ingoiato pezzi di lamette dei rasoi usa e getta, hanno ingerito vetri delle lampadine o delle luci al neon, oppure hanno costruito un cappio adoperando le t-shirt oppure con i lacci delle sneakers. Se tutto è finito bene e nessuno ci ha rimesso la vita, è soltanto un caso. Basta poco che una simulazione – come lo sono gran parte di queste storie – si trasformi una tragedia vera. Cinquantasette persone, dunque, hanno rischiato di morire così.
Per quale ragione molti migranti in attesa di rimpatrio adottino questa strategia è ormai è ampiamente chiaro. Chi è stato ricoverato per un tentato suicidio – e al momento delle dimissioni dall’ospedale ottiene una diagnosi di stato depressivo – che è considerata incompatibile con la detenzione deve immediatamente tornare in libertà. Così stabilisce la legge. Perfetto: si tratta di un doveroso gesto di umanità. Ma se i tentati suicidi sono simulazioni? E se qualcosa va male?
Al Cpr di Torino, fino qualche mese fa esisteva una stanza che si chiama Ospedaletto. Serviva per ricoverare le persone che avevano bisogno di assistenza. Ma il Cpr non è un carcere e il sistema di vigilanza è circoscritto. Ci sono sì dei poliziotti, che garantiscono la sicurezza della struttura, ma niente di più. O meglio poco di più.
Intervengono se – e quando – ci sono rivolte (e ci sono stati dei periodi in cui capitavano con una frequenza impressionante). Gli agentigarantiscono inoltre che gli accessi al Cpr siano autorizzati. In pratica non sono agenti di polizia carceraria: perchè quello non è un carcere. E quello non è il loro compito. Per cui non vigilavano che chi era all’«Ospedaletto» non uscisse. Di qui la precauzione adottata dai responsabili della struttura di chiudere a chiave la porta. Quel gesto è costato – tra le altre cose – anche l’accusa di sequestro di persone al medico del Cpr nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Mamadou Moussa Balde. E per chi non se lo ricordasse era il giovanotto picchiato selvaggiamente a Ventimiglia da un gruppo di ragazzotti. E senza una ragione vera.
Ecco l’indagine su quella vicenda da qualche giorno si è arricchita di un altro elemento. Nel fascicolo aperto dai magistrati Vincenzo Pacileo e Rossella Salvati – e nel quale figuravano già indagati il medico e il direttore della struttura (l’accusa che era stata loro mossa è di omicidio colposo) – adesso sono stati iscritti anche alcuni poliziotti della questura di Torino. Cinque in totale: tre agenti semplici e due graduati. Per loro il reato contestato è il concorso. Si domandano cioè i magistrati se quella morte avrebbe potuto essere evitata. E se tutti hanno fatto il loro dovere.
Di questa vicenda nessuno parla volentieri. Anzi, di più: nessuno parla. L’unico che commenta è Eugenio Bravo il segretario provinciale del sindacato di polizia Siulp che dice due cose. La prima: «Il Cpr sta diventando una farsa che fa soltanto spendere una marea di soldi ai cittadini, senza adempiere alla ragione per cui era stato previsto: cioè l’espulsione degli extracomunitari che non hanno diritto di restare in Italia». La seconda: «Occorre ripristinare al più presto modalità più efficaci possibili per le espulsioni. Diversamente queste strutture saranno una perdita di tempo per le forze dell’ordine è una pia illusione per le espulsioni».
Intanto l’«incubo suicidi» aumenta. E le ambulanze fanno al spola dal pronto soccorso al Cpr, e ritorno. Nessuno lo dice apertamente, ma trovare qualcuno che voglia prendersi la responsabilità di quanto sta accadendo dietro quei muri altissimi che circondano l’ex scalo ferroviario diventato un finto carcere, è sempre più complicato.