La Lettura, 17 ottobre 2021
Introduzione dell’autore a "Una breve storia dell’uguaglianza" di Thomas Piketty (La nave di Teseo)
Questo libro propone una storia comparativa delle disuguaglianze tra classi sociali nelle società umane. O meglio una storia dell’uguaglianza, perché, come vedremo, nel corso della storia si verifica un processo di lungo termine finalizzato a una maggiore uguaglianza sociale, economica e politica. Non si tratta certo di una storia pacifica, e ancora meno lineare. Le rivolte e le rivoluzioni, le lotte sociali e le crisi di qualsiasi natura svolgeranno un ruolo decisivo nella storia dell’uguaglianza che studieremo qui, una storia che è anche scandita da fasi involutive e da derive identitarie.
Resta il fatto che esiste, almeno dalla fine del XVIII secolo, un processo storico orientato verso l’uguaglianza. Il mondo dei primi anni del XXI secolo, per quanto ingiusto possa sembrare, è più egualitario di quello del 1950 o di quello del 1900, i quali, di per sé, erano già per molti aspetti più egualitari di quelli del 1850 o del 1780. I progressi specifici variano a seconda dei periodi e del grado d’interesse rivolto alle disuguaglianze tra classi sociali: definite dallo stato giuridico, dalla proprietà dei mezzi di produzione, dal livello di reddito o dal titolo di studio, dal genere, dall’origine nazionale o etnica — tutte dimensioni alle quali qui riserveremo la nostra attenzione. Ma il quadro non cambia neppure sulla lunga durata, quale che sia il criterio adottato. Tra il 1780 e il 2020, nella maggior parte delle regioni e delle società del pianeta, e in certa misura su scala mondiale, sono osservabili processi indirizzati verso una maggiore uguaglianza di status, proprietà, reddito, genere ed etnia. E sotto molti aspetti questa marcia verso l’uguaglianza è proseguita anche durante il periodo 19802020, più complesso e conflittuale di quanto a volte s’immagini, seppure abbia adottato una prospettiva mondiale e multidimensionale circa le disuguaglianze.
La tendenza di lungo termine verso l’uguaglianza diventa effettiva dalla fine del XVIII secolo, e non è meno limitata nella sua ampiezza. Vedremo che le varie disuguaglianze continuano a cristallizzarsi a livelli considerevoli e ingiustificati nell’insieme delle dimensioni citate (status, proprietà, potere, reddito, genere, origine...), destinate a sommare i loro effetti a livello individuale. Affermare l’esistenza di una propensione verso l’uguaglianza non costituisce affatto un motivo di soddisfazione. Si tratta, al contrario, di un invito a continuare la lotta su un fondamento storico solido. Riflettendo sul modo in cui il processo verso l’uguaglianza si è effettivamente prodotto, è possibile trarre lezioni preziose per il futuro, comprendere meglio sia le lotte e le mobilitazioni che lo hanno reso possibile, sia i dispositivi istituzionali e i sistemi giuridici, sociali, fiscali, scolastici, elettorali che hanno consentito all’uguaglianza di diventare una realtà duratura.
Purtroppo, però, il processo di apprendimento collettivo delle istituzioni giuste perde la sua forza, spesso a causa dell’amnesia storica, del nazionalismo intellettuale e dell’impermeabilità dei saperi. Per proseguire la marcia verso l’uguaglianza è dunque urgente tornare a studiare la storia e oltrepassare i confini nazionali e disciplinari. La presente opera, libro di storia e di scienze sociali al tempo stesso, libro ottimista e libro di mobilitazione collettiva, tenta di procedere in tale direzione.
Una nuova storia economica e sociale
Se è possibile scrivere oggi questa Breve storia dell’uguaglianza, lo si deve prima di tutto alle molte opere che, nel contesto internazionale, nel corso degli ultimi decenni hanno profondamente innovato le ricerche di storia economico-sociale e di scienze sociali. In particolare utilizzerò le molteplici ricerche che hanno dato una prospettiva davvero mondiale alla storia del capitalismo e della Rivoluzione industriale. Penso, per esempio, all’opera pubblicata nel 2000 da Kenneth Pomeranz sulla «grande divergenza» tra Europa e Cina nei secoli XVIII e XIX, opera che costituisce probabilmente il testo più importante e più influente sulla storia dell’economiamondo dopo la pubblicazione di Civiltà materiale, economia e capitalismo di Fernand Braudel (1979) e dei lavori di Immanuel Wallerstein sui «sistemi-mondo».
Secondo Pomeranz, lo sviluppo del capitalismo industriale occidentale è intimamente legato ai sistemi di divisione internazionale del lavoro, di sfruttamento sfrenato delle risorse naturali e di egemonia militare e coloniale attuato dalle potenze europee contro il resto del pianeta. I lavori successivi, dalle ricerche di Prasannan Parthasarathi a quelle di Sven Beckert e del recente movimento ispirato a una «nuova storia del capitalismo», hanno largamente confermato questa conclusione.
Più in generale, la storia degli imperi coloniali e della schiavitù e la storia globale e connessa hanno fatto, nel corso degli ultimi venti-trent’anni, immensi progressi, a cui attingerò abbondantemente. Penso in particolare alla ricerche di Frederick Cooper, Catherine Hall, Or Rosenboim, Emmanuelle Saada, Pierre Singaravélou, Sanjay Subrahmanyam, Alessandro Stanziani, e di molti altri che compariranno nel corso della mia esposizione. Il mio lavoro si ispira inoltre al rinnovamento delle ricerche sulla storia popolare e la storia delle lotte.
Questa breve storia dell’uguaglianza non si sarebbe potuta scrivere senza i progressi compiuti riguardo alla storia della ripartizione delle ricchezze tra classi sociali. Questo campo di ricerca vanta a sua volta un lungo percorso. Tutte le società hanno prodotto, almeno a partire dalla Repubblica e Le leggi (in cui Platone raccomanda che gli squilibri non superino il rapporto uno a quattro), saperi e analisi a proposito delle differenze di ricchezza reali, presunte o auspicabili tra poveri e ricchi. Nel XVIII secolo, Jean-Jacques Rousseau spiega come l’invenzione della proprietà privata e la sua smisurata accumulazione siano all’origine della disuguaglianza e della discordia tra gli uomini. Occorre comunque attendere la Rivoluzione industriale perché si sviluppino vere ricerche sia sui salari degli operai e sulle condizioni di vita, sia nuove fonti d’indagine sui redditi, i profitti e le proprietà. Nel XIX secolo, Karl Marx prova a impiegare al meglio i dati relativi alle finanze e alle successioni dell’Inghilterra del suo tempo, anche se i mezzi e i materiali di cui dispone sono limitati.
Nel corso del XX secolo, le ricerche su questi problemi assumono un carattere più sistematico. Gli scienziati sociali si adoperano a confrontare, su grande scala, dati riguardanti i salari, le rendite fondiarie e i profitti, le successioni e i terreni. Ernest Labrousse pubblica nel 1933 il suo Esquisse du mouvement des prix e des revenus en France au XVIIIe siècle, studio monumentale nel quale mette in evidenza la disparità, nel corso dei decenni che precedono la Rivoluzione francese, tra i salari agricoli relativi al prezzo del grano e la rendita fondiaria; tutto questo in un contesto di forte pressione demografica. Sarebbe fuori luogo individuarvi la causa unica della Rivoluzione, ma sembra evidente che lo scarto progressivo non ha potuto che accrescere l’impopolarità dell’aristocrazia e del regime politico vigente. Nell’opera dedicata nel 1965 a Le Mouvement du profit en France au XIXe siècle, Jean Bouvier e i suoi coautori tracciano, fin dalle righe iniziali, il programma di ricerca che si propongono di svolgere: «Fino a che i redditi delle classi della società contemporanea resteranno fuori dalla portata dell’indagine scientifica, sarà vano tentare di intraprendere una storia economica e sociale valida».
Spesso associata alla scuola delle «Annales», particolarmente influente nel settore della ricerca francese tra il 1930 e il 1980, questa nuova storia economica e sociale non trascura lo studio dei sistemi di proprietà. Nel 1931 Marc Bloch pubblica il suo classico studio sulla tipologia dei sistemi agrari medievali e moderni. Nel 1973 Adeline Daumard pubblica i risultati di un’ampia indagine presso gli archivi delle successioni francesi del XIX secolo. Il movimento segnerà un po’ il passo a partire dagli anni Ottanta, ma lascerà un’impronta durevole sulle pratiche della ricerca in materia di scienze sociali. Così, nel secolo scorso, sono stati pubblicati numerosi studi da parte di molti storici, sociologi, economisti, da François Simiand a Christian Baudelot, da Emmanuel Le Roy Ladurie a Gilles Postel-Vinay, sui salari e i prezzi, i redditi e le ricchezze, le decime e le proprietà.
In parallelo, anche gli storici e gli economisti statunitensi e britannici hanno contribuito a porre le basi di una storia della ripartizione delle ricchezze. Nel 1953 Simon Kuznets mette a confronto i primi conti nazionali (che ha concorso a stabilire a seguito del trauma della crisi degli anni Trenta) con i dati ricavabili dall’imposta federale sul reddito (creata nel 1913, al termine di una lunga battaglia politica e costituzionale), in modo da stimare il progresso della componente degli alti redditi in seno al reddito nazionale. Lo studio riguarda un solo Paese (gli Stati Uniti) e un periodo relativamente breve (1913-1948), ma è in ogni caso il primo studio di questo tipo, e desta molto clamore. Robert Lampman, nel 1962, fa la stessa cosa con i dati ricavabili dall’imposta federale sulle successioni. Nel 1978 Tony Atkinson spinge l’analisi più lontano analizzando le fonti relative alle successioni in Gran Bretagna. Risalendo più indietro nel tempo, Alice Hanson Jones pubblica nel 1977 i risultati di un’ampia indagine condotta sugli inventari post mortem statunitensi del periodo coloniale.
Sulla base di tutti gli studi precedenti, nei primi anni Duemila è stato varato un nuovo programma di ricerche storiche sui redditi e i patrimoni, un programma al quale ho avuto la fortuna di partecipare, con l’appoggio determinante di moltissimi colleghi, tra cui Tony Atkinson, Facundo Alvaredo, Lucas Chancel, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman. Rispetto ai lavori precedenti, il nostro nuovo metodo ha beneficiato di strumenti tecnici privilegiati. Infatti, nel periodo 1930-1980, Labrousse, Daumard o Kuznets conducevano le loro ricerche quasi esclusivamente a mano, su schede di cartoncino. Ogni raccolta di dati, ogni tavola di risultati, richiedeva un investimento tecnico sostanziale, lasciando talvolta al ricercatore poca energia per il lavoro d’interpretazione storica, la consultazione di altre fonti e l’analisi critica delle categorie. Tutto ciò ha sicuramente contribuito a svigorire una storia concepita a tratti in una maniera troppo «seriale» (cioè troppo incentrata sulla produzione di serie storiche comparabili nel tempo e nello spazio, esercizio che può essere considerato una condizione necessaria ma in nessun modo sufficiente per sperare di fare passi in avanti in materia di scienze sociali). Non solo. Le fonti raccolte in concomitanza con questo primo orientamento operativo hanno lasciato poche tracce, e questo ha limitato i possibili riutilizzi e l’adozione di un vero processo cumulativo.
Viceversa, dopo il 2000, il progresso della digitalizzazione ha consentito di estendere l’analisi a periodi più lunghi e a un maggiore numero di Paesi. Frutto di questo programma di ricerche, il World Inequality Database (http://wid.world) unisce oggi, nel 2021, gli sforzi combinati di circa cento ricercatori, operativi in più di ottanta Paesi dislocati in tutti i continenti, con dati sulla ripartizione di redditi e patrimoni che risalgono in alcuni casi fino ai secoli XVIII e XIX e arrivano ai primi decenni del XXI. Questa prospettiva temporale e comparativa più vasta ha permesso di moltiplicare le comparazioni e di realizzare progressi importanti nell’interpretazione sociale, economica e politica dei processi storici studiati. È stato un lavoro collettivo del genere a indurmi a pubblicare, nel 2013 e nel 2019, due opere che proponevano le prime sintesi interpretative sull’evoluzione storica della ripartizione delle ricchezze, opere che hanno contribuito ad alimentare il dibattito pubblico su questi problemi (Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2014; Capitale e
ideologia, La nave di Teseo, 2020).
Di recente, nuove ricerche condotte con Amory Gethin e Clara Martínez-Toledano hanno promosso lo studio delle trasformazioni della struttura delle disuguaglianze sociali e delle fratture politiche, sulla scia dei lavori intrapresi negli anni Sessanta dai politologi Seymour Lipset e Stein Rokkan. Queste diverse ricerche hanno di certo propiziato alcuni progressi, ma occorre sottolineare che resta ancora molto da fare per riuscire a incrociare un maggiore numero di fonti e di competenze, in modo da arrivare ad analizzare in maniera soddisfacente le rappresentazioni e le istituzioni, le mobilitazioni e le lotte, le strategie e gli attori coinvolti nelle trasformazioni oggi in evidenza.
Più globalmente, se oggi mi è possibile scrivere questa Breve storia dell’uguaglianza, lo devo a moltissimi lavori in materia di scienze sociali capaci di utilizzare i metodi più diversi, in misura tale da fare progredire le nostre conoscenze sui problemi in discussione. In particolare, da vari anni, abbiamo davanti una nuova generazione di ricercatori e di studi interdisciplinari innovativi, con riferimento alle analisi e alle dinamiche sociostoriche dell’uguaglianza e della disuguaglianza: studi di confine, tra storia, economia, sociologia, diritto, antropologia, scienze politiche. Penso alle ricerche di Nicolas Barreyre, Tithi Bhattacharya, Erik Bengtsson, Asma Benhenda, Marlène Benquet, Céline Bessière, Rafe Blaufarb, Julia Cagé, Denis Cogneau, Nicolas Delalande, Isabelle Ferreras, Nancy Fraser, Sibylle Gollac, Yajna Govind, David Graeber, Julien Grenet, Stéphanie Hennette, Camille Herlin-Giret, Élise Huillery, Stephanie Kelton, Alexandra Killewald, Claire Lemercier, Noam Maggor, Dominique Méda, Éric Monnet, Ewan McGaughey, Pap Ndiaye, Martin O’Neill, Hélène Périvier, Fabian Pfeffer, Katharina Pistor, Patrick Simon, Alexis Spire, Pavlina Tcherneva, Samuel Weeks, Madeline Woker, Shoshana Zuboff e tanti altri.
Le rivolte contro l’ingiustizia, l’apprendimento delle istituzioni giuste
Quali sono le conclusioni principali alle quali ci conduce questa nuova storia economica e sociale? La più evidente: la disuguaglianza è prima di tutto una costruzione sociale, storica e politica. In altre parole, per un pari livello di sviluppo economico o tecnologico, esistono sempre diversi modi di organizzare un regime della proprietà o dei confini, un sistema sociale e politico, un sistema fiscale e scolastico. Sono scelte di natura politica. Dipendono dalla situazione dei rapporti di forza tra i diversi gruppi sociali e tra le diverse visioni del mondo in opera, e promuovono livelli e strutture diseguali estremamente variabili, a seconda delle società e dei periodi. Nella storia, tutte le creazioni di ricchezza sono il frutto di un processo collettivo: dipendono, dalla nascita dell’umanità in poi, dalla divisione internazionale del lavoro, dall’impiego delle risorse naturali del pianeta e dall’accumulo di conoscenze. Le società umane inventano di continuo regole e istituzioni per strutturarsi e ripartire le ricchezze e i poteri, ma si tratta sempre di scelte politiche e reversibili.
Il secondo insegnamento è che, dalla fine del XVIII secolo, esiste un movimento a lungo termine orientato verso l’uguaglianza. Questa marcia verso l’uguaglianza è la conseguenza delle lotte e delle rivolte contro l’ingiustizia che hanno permesso di trasformare i rapporti di forza e di rovesciare le istituzioni rette dalle classi dominanti per strutturare la disuguaglianza sociale a loro vantaggio — in modo da sostituirle con istituzioni nuove, nuove regole sociali, economiche e politiche più giuste, in grado di emancipare il maggiore numero di cittadini. In termini generali, le trasformazioni fondamentali registrate nella storia dei regimi basati sulla disuguaglianza comportano conflitti sociali e crisi politiche di grande ampiezza. Sono le rivolte contadine del 17881789 e gli avvenimenti della Rivoluzione francese a portare all’abolizione dei privilegi della nobiltà. Come è la rivolta degli schiavi a Santo Domingo nel 1791 a determinare l’inizio della fine del sistema schiavista atlantico, e non già le dispute ovattate scambiate nei salotti parigini. Nel corso del XX secolo, le mobilitazioni sociali e sindacali svolgono un compito importante nello sviluppo di nuovi rapporti di forza capitale-lavoro e nella riduzione delle disuguaglianze. Le due guerre mondiali possono a loro volta essere viste come la conseguenza delle tensioni sociali e delle contraddizioni legate alla disuguaglianza insostenibile in vigore prima del 1914, sia a livello nazionale sia a livello internazionale. Negli Stati Uniti, ci vuole una guerra civile sanguinosa per porre fine, nel 1865, al sistema schiavista. Un secolo dopo, nel 1965, una mobilitazione afroamericana di grande forza riesce a ottenere l’abolizione del sistema di discriminazione razziale legale (senza tuttavia porre termine alle discriminazioni illegali, una realtà non ancora rimossa).
Gli esempi sarebbero molteplici: negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento le guerre d’indipendenza contribuiscono in misura determinante alla sconfitta del colonialismo europeo; occorrono decenni di rivolte e di mobilitazione per abolire, nel 1994, l’apartheid sudafricano; e così via.
Al di là delle rivoluzioni, delle guerre e delle rivolte, fanno spesso da momenti-cerniera le crisi economiche e finanziarie, in cui si cristallizzano i conflitti sociali e si ridefiniscono i rapporti di forza. La crisi degli anni Trenta pesa moltissimo sulla progressiva delegittimazione del liberismo economico e sull’ammissione di nuove forme d’intervento dello Stato. Più vicine a noi, la crisi finanziaria del 2008 e la crisi epidemica mondiale del 2020-2021 hanno demolito o stanno demolendo molte certezze ritenute fino a poco tempo fa intangibili: in merito, per esempio, al livello accettabile del debito pubblico o al ruolo delle banche centrali. Su scala più nazionale, ma significativa, la rivolta dei Gilet gialli in Francia, nel 2018, si è conclusa con l’abbandono dei progetti governativi di aumento della carbon tax, particolarmente antiegualitari.
All’inizio degli anni Venti del Duemila, i movimenti Black Lives Matter, #MeToo e Fridays For Future fanno impressione per la loro capacità di mobilitazione, al di là dei confini e delle generazioni, in fatto di disuguaglianze etniche, di genere, di clima. Tenuto conto delle contraddizioni socioambientali specifiche del sistema economico attuale, è probabile che le rivolte, i conflitti e le crisi continueranno a svolgere in futuro una funzione centrale, in circostanze che è impossibile prevedere con precisione. La fine della storia è ancora lontana. La marcia verso l’uguaglianza ha un lungo cammino da percorrere, soprattutto in un mondo in cui i più poveri (specie i più poveri dei Paesi più poveri) si preparano a subire con sempre maggiore violenza i danni climatici e ambientali causati dal modello di sviluppo dei più ricchi.
È importante insistere anche su un altro insegnamento offerto dalla storia: le lotte e i rapporti di forza non sono di per sé sufficienti. Sono una condizione necessaria per rovesciare le istituzioni fondate sulla disuguaglianza e i poteri in carica, ma purtroppo non garantiscono in alcun modo che le nuove istituzioni e i nuovi poteri che le sostituiranno siano sempre egualitari e patrocinatori di libertà come si sarebbe potuto sperare.
La ragione è semplice. Se è facile denunciare il carattere oppressivo o diseguale delle istituzioni e dei governi al potere, è più complicato trovare un accordo sulle istituzioni alternative in grado di promuovere un effettivo progresso verso l’uguaglianza sociale, economica e politica, nel rispetto dei diritti individuali e del diritto di ciascuno alla propria singolarità. Il compito non è impossibile, tutt’altro, ma impone di accettare la reciprocità, la dialettica dei punti di vista, il decentramento, i compromessi e le sperimentazioni. Di più. Esige di accettare la possibilità di apprendere da traiettorie storiche ed esperienze altrui, e di comprendere in particolare come l’esatto contenuto delle istituzioni giuste non sia dato a priori, e meriti di essere discusso in sé. In concreto, la marcia verso l’uguaglianza ha beneficiato, dalla fine del XVIII secolo, dello sviluppo di un certo numero di dispositivi istituzionali specifici, da studiare in quanto tali: l’uguaglianza giuridica; il suffragio universale e la democrazia parlamentare; l’istruzione gratuita e obbligatoria; l’assicurazione sanitaria universale; l’imposta progressiva sul reddito, sull’eredità e sulla proprietà; la cogestione e il diritto sindacale; la libertà di stampa; il diritto internazionale; e via di seguito.
Tuttavia, ciascuno di questi dispositivi, lontano dall’avere raggiunto una forma compiuta e consensuale, è a suo modo fungibile con forme di compromesso precario, instabile, provvisorio, in perpetua ridefinizione, frutto di conflitti sociali e di mobilitazioni specifiche, di svolte lasciate a metà e di momenti storici particolari. Ogni dispositivo soffre di molteplici insufficienze e deve essere ripensato in continuazione, completato, rimpiazzato da altri. L’uguaglianza giuridica esiste oggi un po’ ovunque, ma si tratta di un’uguaglianza giuridica solo formale, che non impedisce l’esistenza di discriminazioni profonde, a seconda delle origini o del genere; la democrazia rappresentativa non è che una delle forme imperfette della partecipazione politica; le disuguaglianze nell’accesso all’istruzione e alla salute restano abissali; l’imposta progressiva e la redistribuzione sono da ripensare interamente, sia su scala nazionale sia su scala internazionale; la divisione del potere nelle aziende è solo ai primi passi; la concentrazione della quasi totalità dei media nelle mani di pochi oligarchi può essere difficilmente considerata la forma più compiuta della libertà di stampa; il sistema giuridico internazionale, fondato sulla circolazione incontrollata dei capitali, priva di un obiettivo sociale o climatico, si traduce il più delle volte in un neocolonialismo a beneficio dei più ricchi...
Per continuare a contestare e a ridefinire le istituzioni vigenti, saranno necessarie crisi e nuovi rapporti di forza, com’è accaduto in passato, ma anche processi di apprendimento, di appropriazione collettiva e di mobilitazione attorno a nuovi programmi politici e nuove proposte istituzionali. Tutto questo passa attraverso numerosi dispositivi di dibattito, elaborazione e diffusione delle conoscenze e delle esperienze: partiti e sindacati, scuole e libri, mobilitazioni e incontri, giornali e media. All’interno di questi naturalmente le scienze sociali svolgono un ruolo significativo, ma che non deve essere esagerato: a detenere l’importanza maggiore sono i processi di appropriazione sociale, che passano anche e soprattutto attraverso organizzazioni collettive, le cui forme sono tutte da reinventare.
I rapporti di forza e i loro limiti
Riassumendo, sono due gli scogli, simmetrici, da evitare: il primo consiste nel trascurare, nella storia dell’uguaglianza, il peso delle lotte e dei rapporti di forza; il secondo nel santificare e trascurare l’importanza degli esiti politici e istituzionali e il ruolo delle idee e delle ideologie nella loro elaborazione. La resistenza delle élite è una realtà ineludibile, lo è nel tempo attuale (con i suoi miliardari transnazionali più ricchi degli Stati) come lo era in pari misura al tempo della Rivoluzione francese. E può essere sconfitta solo con forti mobilitazioni collettive, in coincidenza con momenti di crisi o di tensione. D’altro canto, l’idea secondo cui esisterebbe un consenso spontaneo a proposito delle istituzioni giuste ed emancipatrici, e che basterebbe sfruttarlo per spezzare la resistenza delle élite, è un’illusione pericolosa. Problemi come l’organizzazione dello Stato sociale, la revisione dell’imposta progressiva e dei trattati internazionali, le riparazioni postcoloniali o la lotta contro le discriminazioni hanno una complessità e una tecnicità superabili solo con il ricorso allo studio della storia, alla diffusione dei saperi, alla concertazione pubblica e al confronto dei punti di vista. La posizione di classe, per quanto sia rilevante, non basta a elaborare una teoria della società giusta, una teoria della proprietà, una teoria della redistribuzione dei beni, una teoria dell’imposta, dell’istruzione, del salario, della democrazia. Per un’identica esperienza sociale, esisterà sempre una forma d’indeterminazione ideologica, da un lato perché la classe è di per sé plurale e multidimensionale (status, proprietà, reddito, titolo di studio, genere, origine...), dall’altro perché la complessità delle questioni vieta di pensare che puri antagonismi materiali possano portare, in tema di istituzioni giuste, a un’unica conclusione.
L’esperienza del comunismo sovietico (1917-1991), evento importante che percorre e in qualche modo definisce il XX secolo, illustra alla perfezione la natura dei due scogli. Da una parte, i rapporti di forza e le accese lotte sociali hanno consentito ai rivoluzionari bolscevichi di abbattere il regime zarista istituendo il primo «Stato proletario» della storia. Uno Stato che ha garantito in un primo tempo un reale progresso nei settori dell’istruzione, della salute e della politica industriale, contribuendo fortemente, tra l’altro, a sconfiggere il nazismo. Senza la pressione dell’Urss e del movimento comunista internazionale, non è assolutamente certo che le classi benestanti occidentali avrebbero accolto il sistema di previdenza sociale e d’imposta progressiva, le decolonizzazioni e i diritti civili. Dall’altra parte, sono state la santificazione dei rapporti di forza e la certezza, nei bolscevichi, di detenere la verità ultima in fatto di istituzioni giuste a condurre alla catastrofe totalitaria. I dispositivi istituzionali adottati (partito unico, centralismo burocratico, egemonia della proprietà dello Stato, rifiuto della proprietà cooperativa, delle elezioni e dei sindacati...) si presumevano più emancipatori delle istituzioni borghesi o socialdemocratiche. Questo ha introdotto gradi di oppressione e di confinamento tali da destabilizzare totalmente il regime e da provocarne la caduta, favorendo oltretutto la comparsa, oggi, di una nuova forma di ipercapitalismo.
Così, dopo essere stato, nel XX secolo, il Paese che aveva interamente abolito la proprietà privata, la Russia, all’inizio del XXI, è diventata la capitale mondiale degli oligarchi, dell’opacità finanziaria e dei paradisi fiscali. Per tutte queste ragioni, la genesi dei differenti dispositivi istituzionali dovrà meritare da parte nostra la massima attenzione, così come andranno studiate le istituzioni adottate dal comunismo cinese, istituzioni che potrebbero rivelarsi più durature di quelle sovietiche (anche se non meno oppressive).
Io cercherò di mantenermi alla giusta distanza dai due scogli: i rapporti di forza non devono essere né trascurati né sacralizzati. Le lotte rivestono certo un’importanza fondamentale nella storia dell’uguaglianza, ma bisogna anche prendere seriamente in considerazione il problema delle istituzioni giuste e della concertazione egualitaria al loro riguardo.
Non è sempre facile trovare una posizione equilibrata tra i due punti: se s’insiste troppo sui rapporti di forza e sulle lotte, si può essere accusati di cedere al manicheismo e di trascurare la questione delle idee e dei contenuti; viceversa, focalizzando l’attenzione sulle debolezze ideologiche e programmatiche della coalizione egualitaria, si può essere sospettati di volerne sminuire la forza e di sottovalutare le capacità di resistenza e l’egoismo miope delle classi dominanti (messo peraltro, e non di rado, in piena evidenza). Farò del mio meglio per evitare i due scogli.