Tpi, 11 novembre 2021
Sergio Rizzo racconta la sua epurazione da Repubblica
Sergio Rizzo fino a trenta giorni fa vicedirettore (ad personam) di Repubblica, da novembre ’costretto’ alla cassa integrazione con una comunicazione via mail. Sergio, dopo “La Casta”, sei uno dei giornalisti che più ha scritto di pensioni in Italia.
(Sorriso amaro). «Vedi? E tuttavia mi sono trovato, con 53 colleghi, anche io costretto a lasciare Repubblica».
Perché dici «costretto»?
«Se il 29 settembre ti arriva una mail dove c’è scritto “Caro Sergio, da novembre sei in cassa integrazione a mille euro”, ti resta poca scelta».
Ma come: solo una mail?
«Proprio così. Mi si diceva che avevo i requisiti anagrafici per il prepensionamento. Cassintegrato per l’età».
Ti hanno messo con le spalle al muro?
«Io, come gli altri 53. Un’azienda in crisi ha il diritto di cercare tutte le soluzioni possibili, anche se sui prepensionamenti a carico dello Stato ci sarebbe molto da dire. Ma c’è modo e modo».
Cioè?
«Un giornale non è una fabbrica di auto. Nel mio caso non era nemmeno legittimo: qualcosa non torna».
Cosa?
«Sono giornalista da 43 anni, avevo già da tempo i requisiti per la pensione. Se la cassa integrazione è legata ai prepensionamenti, perché applicarla a chi, come me, non è prepensionabile?».
Vai in pensione senza scivolo?
«Zero. C’è una bella differenza con il prepensionamento».
L’hai fatto presente al giornale?
«Ho chiesto spiegazioni scrivendo la lettera di dimissioni. Mi è stato risposto che tutti i 54, se non accettavano di andarsene, se ne stavano in cassa integrazione un anno. Che io non fossi prepensionabile non gli importava...».
Ma eri un vicedirettore del giornale!
«Si, ma nessuno mi ha consultato: era un aut aut: prendere o lasciare».
Cosa ci insegna questa vicenda?
«Non riguarda solo noi. Come dice Federico Rampini, è una ennesima testimonianza: di un sistema folle e iniquo».
Torniamo alla vicenda di Repubblica. Tu dici provocatoriamente una frase...
«Questa: “La libertà del giornalismo coincide con la democrazia”».
È una iperbole?
«No, una constatazione. I grandi giornali americani nascono con la guerra di indipendenza. Corriere, Messaggero e Il Carlino con l’unità d’Italia. Il Mondo è l’Italia liberale. L’Espresso e Repubblica sono i figli della Costituzione».
Quindi, per te, la vicenda dei 54 non è una disputa aziendale.
«Nooo!: Vorrei dire agli Elkann: “Se volevate smontare un giornale potevate comprarne un altro. Era meno fatica". I giornali che hanno fatto la storia sono dei loro lettori, non di chi acquista un pacchetto azionario».
Addirittura.
«La Repubblica è un pezzo di identità italiana. Scalfari la fonda nel 1976 per rappresentare non solo la sinistra progressista, ma anche la coscienza critica del Paese. Se la snaturi la uccidi».
Spiega meglio.
«Se per ragioni anagrafiche tu amputi un giornale come questo, non azzeri solo la memoria ma un patrimonio di conoscenze non più trasmettibili».
Dicono: «Ci sono le scuole».
«Maddai! Studio e istruzione sono fondamentali, ma il giornalismo non si impara a scuola. Quasi tutto quel che so, dalle interviste non genuflesse alle inchieste, l’ho imparato da chi l’aveva già fatto. Non c’è altro mestiere dove le navi scuola sono così importanti. È gravissimo che questo sia del tutto ignorato. Come fossimo una cassetta di melanzane marce».
Lo hai detto a Molinari?
«Non ho avuto il piacere. Mi è arrivata solo la mail. Nemmeno una telefonata».
Non ci credo. Sei arrabbiato?
«Per nulla. Deluso sì. Mi avesse chiamato per dirmi “Sergio, mi spiace, l’azienda è in crisi. Visto che puoi andare in pensione, lo fai?” sarebbe bastato. Invece c’è stato un epilogo grottesco». Quale?
«Il giorno successivo a quella mail il direttore ci convoca in uno stanzone». E cosa dice?
«“Questo è il momento di far vivere lo spirito di corpo della famiglia di Repubblica. Di restare uniti. Non perderci. Sto studiando una iniziativa perché possiate continuare tutti ad avere un ruolo”».
E tu?
«Resto di sasso. Come tutti».
E poi?
«Si alza Lavinia Rivara, professionista coi fiocchi, colonna del politico, e dice ciò che tutti pensano: “Ma come? Collaborare è vietato ai prepensionati”».
Mamma mia. E che succede?
«Il gelo. Nessuno ha avuto il coraggio di fare una piega».
E tu?
«Mi è sembrata una situazione assurda e me ne sono andato».
Hai un rimprovero da farti?
«Sì. C’erano segnali già da un pezzo che lo spirito di Repubblica stava svanendo. Cacciarono Mario Calabresi, una mattina, in un modo brutale».
E lui?
«Un signore. Continua a lavorare venti giorni. La sua ultima sera ero di turno. Chiude con me a mezzanotte, con la stessa cura della prima. Il giorno dopo fa colazione con Carlo Verdelli e poi vengono in riunione: lo presenta, con affetto. Questo è lo stile Repubblica».
E poi?
«Il giornale viene venduto ai proprietari di oggi: improvvisamente viene cacciato anche Verdelli. Mentre è sotto minaccia. Se possibile, con più brutalità».
Pare incredibile che Molinari non ti abbia fatto nemmeno una telefonata.
«Non lo so perché. Francamente non m’importa».
Cosa intendi?
«Sai che in ogni quotidiano le scrivanie sono la carta di identità dei giornalisti».
Certo.
«Dietro a Verdelli c’erano decine di palle di vetro con neve: ogni volta che il figlio viaggia gliele regala una. Cartoline d’amore padre-figlio. Uno spettacolo vederlo che le sistemava soddisfatto».
E la scrivania di Molinari?
«Dietro ha tante sue foto con i grandi del mondo».
Meno romantico di Carlo, più egotico.
«Sì. Trasmette un sentimento di malinconia. Come certe pizzerie in cui c’è di tutto, le foto da Bombolo a Harrison Ford. Poi magari scopri che metà di quei vip non hanno mai messo piede nel locale. Ecco, non ho nulla contro Molinari»
Però?
«Se ti metti la foto con Obama dietro, ma poi non hai coraggio di guardare negli occhi chi mandi via, fai tenerezza».