La Stampa, 11 novembre 2021
Se bastasse uno schwa
Lo schwa è un grattacapo per chiunque si accosti allo studio della lingua ebraica. È comunemente definito una «semivocale» nel contesto di una lingua che non contempla le vocali nello scritto, dove sono state interpolate a posteriori, con un procedimento assai interessante ma non poco macchinoso. Furono infatti i cosiddetti masoreti, esegeti dell’epoca tardoantica, a elaborare un sistema grafico di vocali per spazzare via una vasta serie di equivoci contenuti nel testo sacro. Fissando le vocali, infatti, si stabilisce il senso corretto di una quantità di punti ambigui nel testo. Ma fissare le vocali in un testo sacro come è la Bibbia ebraica ha significato necessariamente non violare, cioè non toccare «fisicamente» il testo consonantico. Le vocali sono dunque segni apposti alle consonanti, che «sfruttano» gli spazi bianchi fra le lettere e le righe per canonizzare la versione accreditata del testo, per fissare attraverso la vocalizzazione il significato altrimenti non di rado ambiguo, con un complesso sistema detto «puntazione». In questo vasto e complesso insieme di segni grafici che indicano vocali lunghe e brevi si trova pure una particella (tre puntini in verticale posti sotto la consonante) che rappresenta una semivocale, un accenno di voce, una sbavatura nella pronuncia. Un suono praticamente impronunciabile...
Lo schwa, che sulla pagina di un testo ebraico risulta come due puntini sottostanti la consonante, viene creato insieme a un complesso sistema vocalico fatto di lunghe, brevi e brevissime, proprio per definire l’indefinito, per spazzare via le ambivalenze di significato. Oggi viene invece chiamato in causa per una funzione perfettamente opposta: indefinire. Includere invece di escludere. Se avesse coscienza, lo schwa si sentirebbe destabilizzato, in preda a una profonda crisi di identità...
La forma grafica dello schwa nell’alfabeto fonetico latino è ?. Di fatto, ancora una volta l’accorgimento adottato non fa che confermare l’impronunciabilità di questo plurale inclusivo puramente «virtuale» perché declinato con una desinenza occulta, estranea ai segni alfabetici che conosciamo e che siamo in grado di pronunciare. È un po’ come un’altra storia biblica, quella del colore ricavato da un certo baco, takhelet che decorava i paramenti del sommo sacerdote, e per il quale non ci sono raffronti possibili: va’ a sapere che Pantone era...
Tanto una scelta quanto l’altra, insomma, conducono l’italiano a una dimensione diversa, quella delle lingue semitiche e nello specifico dell’ebraico, dove la parola scritta è radicalmente impronunciabile perché vi mancano i segni vocalici. Queste soluzioni ancora sperimentali tracciano un confine invalicabile fra lingua scritta e lingua parlata.
Ma non finisce qui. Vi sono altre soluzioni, e certamente ne arriveranno ancora. Come ad esempio il numero 3 in fondo alla parola, in sostituzione della desinenza maschile. O anche un punto come interpunzione fra la desinenza maschile e quella femminile: «buongiorno a tutti·e». Quest’ultima formula ha una sua eleganza, risponde effettivamente a un’istanza di inclusione – comprende invece di sostituire. Si tratta, in un certo senso, di una versione sciolta del dittongo, che pure fa anch’esso la sua comparsa in alcune proposte di plurale inclusivo: «caroe tuttoe» o forse «caræ tuttæ».
Invece che per sottrazione, spazzando il campo da vocali e vocalizzazioni possibili, si potrebbe allora procedere anche per addizione. Come nel nuovo messale della Chiesa cattolica, da pochissimo in vigore, dove nell’atto penitenziale sono state integrate le «sorelle» oltre ai fratelli. A costo di una iterazione pedante: «cari tutti e care tutte», dilatare la parola resta per ora l’unica possibilità di inclusione «pronunciabile» e comprensibile. Ma in un presente come questo, tutto improntato alla rapidità della comunicazione, un presente in cui fra mittente e destinatario digitali il tempo si azzera e sparisce dalle variabili in gioco, pretendere di «allungare» il discorso suona quasi velleitario.
Oppure, ancora una volta, provare a vedere le cose da una prospettiva diversa. Capovolgere la faccenda esercitando quella libertà tanto primaria quanto preziosa: quella di pensare e immaginare. Uscire dagli schemi, che poi significa letteralmente «andare fuori», «spostarsi da un punto» e recarsi in un altro. Allora mettiamola così: al singolare, maschile e femminile hanno forme proprie, esclusive. Al plurale, mentre il femminile «gode» di una forma esclusiva, il maschile deve «accontentarsi» della forma generica, che vale per tutti. Cioè inclusiva. In parole povere: il femminile ha un surplus, ha qualcosa di più del maschile visto che un plurale maschile «originario» ed esclusivo non esiste, esiste solo il plurale inclusivo.
In questo la battaglia dovrebbe farsi per un plurale maschile esclusivo, non per quello inclusivo... Certo, è una sorta di provocazione, che però aiuta a vedere le cose da una prospettiva diversa.
Per tentare una sintesi tanto provvisoria quanto inadeguata su questa complessa vicenda, l’impressione è che, tanto sul fronte di una lingua rispettosa del genere – di quello femminile, evidentemente, perché il genere maschile non si è mai fatto mancare nulla in proposito – quanto su quello di un plurale che sia inclusivo ma anche comprensibile, la battaglia sia ardua. Il plurale inclusivo ha più l’aspetto di un santo Graal che di un traguardo a ragionevole distanza, mentre l’ipotesi di costruire una parità di genere in fatto di desinenze e suffissi si scontra inevitabilmente con quella resistenza che è insita nello strabiliante istinto di sopravvivenza che ogni lingua ha – nel conservare sé stessa e nel saper cambiare con modi e ritmi propri.
Sta di fatto che proprio l’incertezza nel metodo, la varietà di soluzioni che procedono per invenzione, addizione e sottrazione, dà conto di quanto sia minato il campo dell’intervento nella lingua: articolo determinativo pleonastico per nominare il femminile, asterisco, semivocale, punto intermedio, pure l’esumazione del dittongo per il plurale inclusivo. Iterazioni e mancanze, particelle di troppo e altre che non ci sono. È tutto ancora una specie di esperimento o un bagaglio scomodo.
Che una faccenda così complessa e delicata lasci spazio a cortocircuiti – talvolta al limite del surreale – è quasi scontato. Quello spazio diventa, talvolta, una sterminata steppa di luoghi comuni.