Quest’uomo è Federico Buffa.
Raccontare, raccontare.
Storytelling è una parola orrenda, non trova?
«Non bellissima. Lo vedo come un derby tra Homo Sapiens e Neanderthal: ha vinto il primo 3-0, merito dell’immaginazione. Narrare e ascoltare ci permettono di considerarci vivi».
Le storie di sport lo sembrerebbero più che mai, persino quelle lontane e quasi dimenticate.
«Ero uno sbarbatello di quarta ginnasio al Manzoni di Milano. “Per una settimana non si fa lezione!” decisero i più grandi, i liceali. Ottobre 1973: “C’è appena stato il golpe in Cile”, ripetevano quelli. Il cosa?, pensavo io. La parola stessa – golpe – mi era sconosciuta. Ma quell’evento divenne per me un’ossessione».
Il 1976, l’anno del terremoto in Friuli.
«E dei 21 morti per terrorismo. L’Italia viveva la settima reincarnazione del governo Andreotti, alla Farnesina c’era Forlani. Ampio e articolato dibattito nel Paese: andare in Cile a casa del dittatore per giocare a tennis, oppure no? Il Coni era per il sì, ma se ne lavò le mani perché allora il tennis non era disciplina olimpica.
Berlinguer voleva andare, Craxi no. Il Pci temeva che un nostro rifiuto avrebbe reso più facile la posizione voluta dai golpisti: loro, contro il resto del mondo. I nostri giocatori sapevano di vincere, temevano una lunga squalifica e alla fine si andò.
Titolo di Repubblica: “Ha vinto Pinochet”».
Squadra molto interessante, quella azzurra.
«La sporca mezza dozzina: quattro giocatori più Pietrangeli e Belardinelli. Il tennis è uno sport di uomini soli, ma la Davis è il contrario del tennis perché si gioca a squadre.
La nostra era spaccata, Panatta stava con Bertolucci, e Barazzutti con Zugarelli, anche politicamente. Il più stimolante, di certo Zugarelli. Crebbe poverissimo in una casa di lamiera. Il padre, muratore disoccupato, costruiva trappole per passerotti per sfamare la famiglia».
In America ci avrebbero fatto almeno una miniserie tivù.
«Eccome! Solo da noi non succede, forse perché molti atleti di oggi non hanno più storie forti, è un’epica diversa. Penso a Berrettini, a Tamberi: dal punto di vista della narrazione, campioni normali.
Adriano Panatta era figlio di Ascenzio, custode del club dei Parioli, e infatti Pietrangeli lo chiamava Ascenzietto».
In Cile, i “gesti bianchi” si colorarono del rosso di una maglietta, la nostra, nella finale del doppio.
«Bertolucci non voleva, Panatta che era più a sinistra invece sì. Ma il quarto set lo giocarono di nuovo in azzurro. Di quel rosso si parlò molto in seguito, non allora. Mi disse Panatta: “Se ne saranno accorti? Se no, è grave. Se sì, e non c’è stata reazione, è pure peggio”. Fu il regista Calopresti a sdoganare la cosa, parecchi anni più tardi. Ma vorrei dire dei gesti bianchi».
Forse la più bella definizione del
tennis di sempre: appartiene a Gianni Clerici.
«Lo scriba è il convitato di pietra di queste mie due puntate. Scrittore sublime, tutto “in levare”. A Santiago rimase chiuso in un postribolo alle due di notte».
Perché dedicare ancora attenzione a quella romantica preistoria?
«In questo, Sky è coraggiosa. Cerca i contenuti, non solo gli ascolti facili. A parte che la narrazione popolare piace sempre molto. Forse dipende dal fatto che genitori e figli guardano insieme la tivù, e i più giovani realizzano che certe cose sono accadute davvero. Come per la maglietta di Di Biagio in mano a Cristiano Ronaldo».
Anche quello, a suo modo, un romanzo generazionale.
«Di Biagio mi disse che un giovanissimo Ronaldo gli aveva chiesto la maglietta dopo un’Inter-Sporting Lisbona di Coppa dei Campioni. Lo raccontò al figlio che gli rispose “Siii, figurati, lui che domanda la maglia a te…”. Quando la storia passò in tivù, divenne vera anche per il ragazzo».
Però non crede, Federico, che la forza dello sport sia superiore a ogni riproduzione artistica?
«Nessun dubbio che il gesto atletico prevalga su qualunque fiction.
Diverso il racconto giornalistico che rievoca e collega, sprigionando scintille dal fondo della caverna».
Il tennis resta un buon argomento?
«Inventato dagli inglesi su una parola francese e lanciato dagli americani, possiede una sacralità intoccabile.
Volendo, lo giocano i settantenni quasi da fermi, eppure può essere sanguinario. E c’è un filo teso che va dai Finzi Contini a Panatta».