Corriere della Sera, 11 novembre 2021
Luca Zingaretti: «Sopravvivo a Montalbano»
Luca Zingaretti, qual è il suo primo ricordo?
«Il corridoio della nostra casa alla Magliana. Da lì all’Eur erano tutti prati. Ci avevano assicurato che sarebbero diventati piscine e campi da tennis».
Invece?
«Crebbe la borgata. La considerai una buona notizia. Divenni un po’ un ragazzo di strada; e la strada – non è retorica – fu una scuola».
Scuola?
«Impari a relazionarti con gli altri. In fondo siamo animali: la prima impressione è sempre legata all’aspetto, all’odore, al modo di porsi. Ancora adesso, pure nel luogo più pericoloso del mondo, mi sento relativamente tranquillo. Se poi c’è un pericolo vero, lo avverto un quarto d’ora prima».
Faceva a botte?
«Bastava uno sguardo storto, o una lite per il pallone, ed era subito rissa. Ma con le mani; non c’erano coltelli o pistole, come adesso».
E il primo ricordo pubblico?
«Un grande corteo urlante del Sessantotto in corso Vittorio a Roma, io e mio fratello Nicola per mano a nostro padre Aquilino, che sorride della mia paura. E poi i funerali di piazza Fontana, in tv. Ricordo l’atmosfera di stupore: la gente non capiva quel che era accaduto, la guerra era finita da poco e tornavano le bombe. E ricordo una folla diversa da oggi proprio sul piano antropomorfo: eravamo più piccoli, più scuri, più “terroni”, più italiani».
Lei faceva politica.
«Nel Pdup: partito di unità proletaria. I capi erano Lucio Magri e Luciana Castellina. Si diffondeva il Manifesto, si distribuivano volantini, si teneva testa ai fascisti, che a Roma erano forti. Tutti gli studenti facevano politica».
Lei quindi era di estrema sinistra.
«No. Noi eravamo l’ala critica del Pci, e guardavamo con sospetto agli estremisti veri: Lotta continua, Autonomia operaia. Tutta la sinistra però seppe fare argine alla tentazione del terrorismo. Oggi si tende a dimenticarlo; ma senza quell’argine la storia del nostro Paese sarebbe stata ancora più terribile».
Suo fratello Nicola, di quattro anni più giovane, scelse invece la Fgci: Federazione giovanile comunista.
«Lui aveva la pazienza necessaria a fare politica, che a me mancava. Fece tutta la trafila: segretario di sezione, di Roma, della provincia, nazionale. Poi entrò nel partito».
Lei quattro anni fa disse al Corriere: «Speriamo che Nicola non diventi segretario del Pd».
«Avevo ragione. Il Pd è divenuto un partito molto turbolento. Non dico il centralismo democratico; ma un po’ di spirito unitario ci vorrebbe».
Draghi?
«Non mi dispiace per niente, anzi».
Lo vede al Quirinale?
«Sarebbe un ottimo presidente. Ma preferirei che proseguisse lo straordinario lavoro che sta facendo».
La destra italiana non è mai stata così forte, Salvini e Meloni insieme fanno il 40%. Qualcuno paventa un nuovo fascismo. Esiste questo pericolo?
«La destra italiana è legata indissolubilmente al ventennio fascista. Il che è inaccettabile: perché era una dittatura; e perché non si può affrontare il 2021 con le logiche di un secolo prima, sarebbe come fare il giro del mondo con la topolino amaranto. Ma è un’involuzione che non riguarda solo la destra italiana. Ovunque i social soffiano sul fuoco dell’irrazionalità. Si ragiona sul sentito dire. I No Vax nascono da lì».
Una parte della sua famiglia è di origine ebraica.
«Mia bisnonna Ester, la nonna di mia madre, fu portata via dal ghetto il 16 ottobre 1943. Qualcuno aveva dato l’allarme, lei era scappata, ma aveva lasciato a casa l’orologio. Tornò a prenderlo. I nazisti fecero irruzione e la mandarono ad Auschwitz. Morì durante il viaggio. Suo figlio, mio nonno Angelo, si salvò nascondendosi in convento. Il fratello, mio zio Ugo, grazie ai documenti falsi che gli procurò una rete di resistenti cattolici, poté tenere aperto il suo negozio di antiquariato. Quando partivano i rastrellamenti nazisti, alla ricerca di braccia da mandare in Germania, i giovani del quartiere si avvertivano l’un l’altro, e si nascondevano. Ero legatissimo a zio Ughetto».
Come mai?
«Scapolo impenitente, tutti in famiglia lo amavamo molto. Un giorno lo accompagnai a una visita medica. Temeva di avere un brutto male. Ne uscì rassicurato e si fumò una sigaretta. Mi disse: “Luca, io la mia vita l’ho vissuta. La morte non mi fa paura, perché non ho rimpianti”. È una lezione che mi porto ancora dentro».
Lei non ha paura della morte?
«Io adoro la vita. La mia vera paura è vivere male. È guardarmi indietro e dire: potevo giocarmela meglio».
Crede in Dio?
«Ho un rapporto molto personale con il trascendente. Avverto il desiderio di qualcosa che ci comprenda tutti, l’aspirazione all’immortalità; ma fatico a inquadrarla in una fede religiosa. Se mi succedesse qualcosa, vorrei una benedizione da cattolico; ma lo so che è una posizione di comodo».
Come immagina l’Aldilà?
«Non me lo immagino. La vita è ora e qui. Bisogna cercare di stare bene; che non vuol dire andare alle Maldive, ma vivere appieno ogni momento, anche il peggiore; perché può sempre riservare sorprese».
Come ha vissuto i lockdown?
«Il primo in modo quasi euforico. Al netto del dolore e della paura che ci circondava, ero felice che fossimo tutti insieme: le cene con le figlie, Emma e Bianca; le chiacchiere con mia moglie; il tempo per leggere un libro, riflettere, financo per annoiarsi…».
E il secondo lockdown?
«Il secondo anche basta».
Lei dovette scegliere tra il calcio e il teatro.
«Il calcio è stata un’altra grande scuola. L’allenamento, la fatica, la tattica, lo scontro, il gol, la gioia: mi piaceva tutto. Mi presero in serie B, al Rimini. Scappai dopo pochi mesi. Mi avevano ammesso all’Accademia d’arte drammatica. E Rimini d’inverno era triste come un lunapark chiuso».
Suo docente di regia televisiva era Andrea Camilleri.
«Non c’era una lira per le telecamere. Così insegnava per tre ore con la sua affabulazione».
Al cinema lei esordì in ruoli da cattivo.
“In Vite strozzate ero un commercialista che presta soldi ai disperati e cerca pure di rubargli la moglie: un essere spregevole. Ho fatto anche il viddano, il corleonese che nella Piovra 8 uccide il suo capomafia. E il violentatore ne Il branco. Una storia affrontata da Marco Risi con uno sguardo realistico che trovavo efficace, senza una condanna preventiva e quindi catartica; come a dirci che il malvagio poteva essere chiunque. Ma a Venezia Uma Thurman, che era in giuria, non capì, pensò che difendessimo gli stupratori. Si levarono i fischi, gli insulti. Gillo Pontecorvo disse a Risi di affrontarli, lui si alzò in piedi, e io gli fui accanto. Poi scappai in albergo a piangere».
Come divenne Montalbano?
«In una piccola libreria comprai un romanzo di Camilleri: era Il cane di terracotta. Scoprii questo personaggio strepitoso. Avrei comprato volentieri i diritti, ma non avevo né i soldi, né il nome. Per fortuna se li procurò un piccolo produttore, Carlo Degli Esposti. Dissi alla mia agente: anche se cercano un attore alto e biondo, voglio quella parte. Scelsero me».
Camilleri che disse?
«Che avrei fatto un bel lavoro. Anche se lui aveva in mente un altro tipo di attore, tipo Pietro Germi quando fa il commissario Ingravallo».
Forse Camilleri avrebbe voluto che il pubblico identificasse Montalbano con il suo autore, cioè con lui, anziché con il suo interprete, cioè con lei.
«È possibile che talora si sia seccato, quando qualcuno gli chiedeva del Montalbano personaggio della fiction anziché del personaggio letterario; tanto che poi in Riccardino, il suo ultimo romanzo, ci ha anche scherzato sopra. Ma Camilleri era superiore a queste cose. Prima di un grande scrittore, era stato un grande uomo di spettacolo. Conosceva la differenza».
Non soltanto l’ennesima replica di Montalbano vince ancora la serata tv; la fiction è stata esportata in tutto il mondo, America compresa. Qual è il segreto?
«I segreti sono tre. Una scrittura magica, propria della scuola siciliana, in cui il bianco è nero e il nero è bianco. La scelta di Degli Esposti di girare quasi tutto sull’isola, con un regista di Gallarate come Alberto Sironi che creò uno scollamento dalla realtà senza che lo spettatore se ne accorgesse, ad esempio mettendo in scena una Sicilia senza traffico. E un cast d’eccezione, che ha inventato un modo di recitare all’apparenza naturale eppure artefatto, da commedia dell’arte con note tragiche. A volte pare un film di Almodovar, a volte Boldi e De Sica, a volte Bergman».
Montalbano ha avuto un solo momento di impopolarità: quando lasciò la fidanzata al telefono.
«Credo sia stato uno stress test cui Camilleri sottopose il personaggio. Gli fece fare una cosa non da lui, per vedere se il pubblico avrebbe perdonato il tradimento. Infatti quella scena la girai in modo diverso; come se non fosse il vero Montalbano. Che avrebbe preso un aereo, sarebbe andato a Boccadasse, e avrebbe detto alla sua donna negli occhi: il nostro amore è finito».
Lei sua moglie, Luisa Ranieri, se la tiene stretta.
«La conquistai sul set di Cefalonia. Le facevo trovare fiori dappertutto. Prenotavo l’intero ristorante, c’erano fiori su ogni tavolo. Cedette per sfinimento».
E i suoi genitori?
«Mamma se n’è andata l’anno scorso. Papà l’ha seguita undici mesi dopo. Non potevano stare l’uno senza l’altra».
Cos’è stata per lei la morte di Camilleri?
«L’addio a un grande, da cui mi ha sempre separato un’affettuosa distanza, dovuta al rispetto e alla timidezza».
E la morte di Montalbano?
«Ho dato molto, ho avuto tantissimo. È stata una cavalcata meravigliosa. Ma dovevo imparare a sopravvivergli».
E lei ora cosa farà?
«Il doppiatore: lo zio profeta di Encanto, il prossimo cartone Disney. L’attore del primo prison drama italiano per Sky, Il re: il direttore di un carcere che si crede onnipotente. E il regista. Del mio primo film. Una storia di rinascita».