Generoso Picone per "il Mattino", 10 novembre 2021
"MIO PADRE NON CI TENEVA PIÙ DI TANTO AD ANDARE AL QUIRINALE" - IL FIGLIO DI GIULIO ANDREOTTI, STEFANO: "PREFERIVA SVOLGERE IL RUOLO DI CAPO DEL GOVERNO E MEGLIO ANCORA DI MINISTRO PER GLI ESTERI. MIO PADRE EBBE UN RUOLO DECISIVO PER L’ELEZIONE DI GIOVANNI LEONE, AVVENUTA AL VENTIDUESIMO SCRUTINIO IL 29 DICEMBRE 1971. CI FURONO CONTRASTI DURI ALL’INTERNO DELLA DC. IL VERO SCONFITTO, L’UOMO CHE SUBÌ LO SGAMBETTO, FU AMINTORE FANFANI. IL METODO ANDREOTTI? MIO PADRE RIPETEVA CHE 'NON C’È NESSUN METODO CHE GARANTISCA LA VITTORIA, CI SONO SOLO ERRORI DA NON COMMETTERE'" -
«Senza Andreotti non si va da nessuna parte» ripetono i commensali durante la cena all’aperto organizzata dai fedelissimi per lanciare la sua candidatura alla presidenza della Repubblica. La sequenza è presa dal «Divo», il film che Paolo Sorrentino nel 2008 dedicò alla vita di Giulio Andreotti, decisamente smentita dal protagonista e tratta da una delle poche rappresentazioni di sé che l’abbia fatto arrabbiare da arrivare a definirla «una mascalzonata»: valga quindi come riferimento puramente simbolico, giusto avviare da quest’immagine la narrazione del romanzo del Quirinale, cioè il racconto delle strategie che una volta segnavano settimane e mesi precedenti l’elezione del Capo dello Stato.
Nella realtà, andò a finire che nella Dc prevalse il nome di Arnaldo Forlani, Andreotti scelse di compiere il passo indietro «visto che c’è la candidatura del segretario, la mia non esiste più. E chi lavora a sfavore pecca contro lo Spirito Santo». I franchi tiratori peccarono il 16 maggio 1992. Forlani commentò: «Meglio lasciar fare lo Spirito che muove il creato». Al Colle andò il 25 maggio al sedicesimo scrutinio Oscar Luigi Scalfaro.
Stefano Andreotti, il secondogenito di Giulio, già manager di lungo corso che assieme alla sorella Serena si sta dedicando alla cura dei diari segreti del padre – editi da Solferino, dopo il primo volume pubblicato l’anno scorso ora è uscito «I diari degli anni di piombo» e altri ne verranno – ricorda bene quell’episodio.
Costituì una delusione? «Vuole la verità? In fondo non è che mio padre ci tenesse più di tanto ad andare al Quirinale. Uno come lui considerava il Parlamento il centro dell’attività politica che amava vivere in maniera decisamente attiva. La figura del presidente della Repubblica gli doveva apparire più rivestita da una funzione istituzionale e quindi tale da sottrarlo alla partecipazione diretta attraverso incarichi che lo portavano ad avere frequentazioni e contatti costanti a livello anche internazionale.
Ecco: preferiva svolgere il ruolo di capo del governo e meglio ancora di ministro per gli Esteri. Esercitato, per altro, con qualità riconosciute da chiunque e in ogni parte del mondo. Del resto, lui aveva cominciato da sottosegretario al fianco di Alcide De Gasperi, misurandosi con questioni e problemi di rilevante importanza. Ha sempre coltivato, fino al 1989, questa passione, consolidando il suo credito. Quante volte grandi esponenti della sinistra europea e sudamericana hanno interrogato i corrispettivi italiani chiedendo: ma perché ce l’avete con Andreotti?».
Ciò non toglie che abbia svolto funzioni importanti e determinanti nell’individuazione dei capi dello Stato. «Certo, si può ben dire che abbia impresso il suo segno in tutte le elezioni. Lui è stato un uomo che ha mediato sempre, all’interno della Dc e con gli altri partiti. Ma i suoi anni sono stati caratterizzati da una idea di politica che oggi è lontana e perduta».
Mediazioni che potevano portare pure a esclusioni e veti. «Se lei intende dire degli sgambetti, beh, è vero. Se ne facevano, alcuni erano clamorosi, e anche di questo materiale era composta l’azione politica. Ma c’era anche altro, il quadro politico non era formato da blocchi monolitici e in ogni schieramento si potevano individuare interlocutori con i quali confrontarsi, discutere e magari trovare utili intese».
Ora? «Non mi faccia parlare del presente. La situazione è sotto gli occhi di tutti e a volte verrebbe voglia di consigliare se non la lettura di qualche buon libro di Storia almeno di un buon manuale di Diritto costituzionale».
Ricorda una elezione per la quale suo padre abbia avuto un ruolo maggiormente decisivo? «Per l’elezione di Giovanni Leone, avvenuta al ventiduesimo scrutinio il 29 dicembre 1971. Ci furono contrasti duri all’interno della Dc».
Non passò il nome di Aldo Moro. «Il vero sconfitto, l’uomo che subì lo sgambetto, fu Amintore Fanfani. Alla fine, comunque, si riusciva a trovare una soluzione».
Il metodo Andreotti? «Mio padre ripeteva che “non c’è nessun metodo che garantisca la vittoria, ci sono solo errori da non commettere”. Aggiungeva quindi che “il vero grande segreto è che non esistono grandi segreti”. Era la lotta politica, magari dura e crudele, ma che portava pure ad alimentare rapporti di stima personale, se non di amicizia».
Ne rammenta uno? «Quello tra mio padre e Sandro Pertini. Fu uno straordinario legame di solidarietà e rispetto. Avevano caratteri diversi, se non proprio opposti, ma ciò non incrinò mai la loro relazione: Pertini da capo dello Stato e mio padre da presidente del Consiglio».
Neanche quando Sandro Pertini lanciò le sue accuse dopo il terremoto dell’Irpinia? «Pertini aveva il suo temperamento, all’istante sbottava e poi recuperava l’equilibrio. Ci sono state tante occasioni in cui si può verificare reciprocità di sostegno».
Oggi l’aria che si respira è un po’ diversa. Come si muoverebbe suo padre in vista dell’elezione al Quirinale? «Intanto i tempi sono profondamente mutati. Rimane il rischio delle trappole e dei tranelli: l’esperienza suggerisce di aspettare e valutare tutte le circostanze. All’epoca della Dc non si mettevano in campo i grandi nomi che, a parte qualche eccezione, al Colle non ci sono mai andati né forse hanno davvero pensato di puntarci. Alla fine sa come si dice in Vaticano? Al Conclave chi entra da Papa spesso esce cardinale».