Corriere della Sera, 10 novembre 2021
Novembre 1951. La notte del Polesine
«L’acqua saliva sempre. Sul camion c’era tutto il gruppo. Io ero un po’ più in alto perché ero sulla sponda. Avevo stretto col braccio sinistro tre miei figli, e mia moglie con l’altra figlia sulle spalle, dall’altra parte. L’acqua arrivava, continuava a salire, era quasi alla gola. Io continuavo a tenermi stretto... Sono passate molte ore… Tutti piangevano. Io non resistevo più. Ma non potevo decidermi a lasciare questo o quel braccio che sarebbero andati sotto i miei figli e mia moglie. Non potevo decidermi...».
Finché Giovanni Bellinello, come raccontò giorni dopo a «L’Unità», non riuscì più a resistere lì in piedi sul pianale, appoggiato alla cabina del vecchio Alfa Romeo 85/C del 1937 che aveva già fatto una guerra e 14 passaggi di proprietà prima che l’acqua gli bloccasse il motore quella notte su uno dei tanti rettilinei del Polesine, a Frassinelle. Gli mancarono le forze. Cedette: «Ho pensato di unirci tutti e di andare sotto tutti insieme…». E insieme andarono sotto, nell’acqua che inghiottiva il camion fino al tettuccio, la moglie Valentina, cinque figlioletti, il fratello Mario, sua moglie Nazzarena e i bambini loro e altri padri, altre madri, altri figli per un totale di ottantaquattro persone. La gran parte delle vittime dell’alluvione, un centinaio…
Lui, Giovanni Bellinello, portato via esausto dalla corrente, si ritrovò aggrappato a una balla di paglia, sbattuto contro un salice, raccolto infine semisvenuto da una barca dei soccorsi. Vivo, ma spezzato dentro per sempre. Col magone di aver sbagliato a lasciare la casa dove erano rifugiati per salire tutti, pigiati all’inverosimile, su quel camion requisito dal prefetto per distribuire viveri e ora diretto a Rovigo, ma subito bloccato dall’acqua. Invano, scriverà anni dopo Pietro Radius su «Famiglia Cristiana», il padrone del mezzo Attilio Baccaglini «suonò il clacson finché la batteria resistette. Invano qualcuno accese una fiaccola con una camicia immersa nel serbatoio. Nessuno poteva giungere in soccorso. Peggio ancora: nessuno sapeva». «Mano a mano che l’acqua saliva, un’acqua freddissima e sporca, qualcuno, specie i bambini e i vecchi, moriva», scriverà Gian Antonio Cibotto nelle strepitose Cronache dell’alluvione raccogliendo le parole di un amico sopravvissuto: «Era una morte sempre uguale, silenziosa: un fiotto di sangue dalla bocca e poi via, trascinati dalla corrente. I corpi sparivano, riapparivano, sparivano ancora per sempre...».
Era la notte tra il 14 e il 15 novembre 1951. E quella tragedia del «camion della morte», dentro l’alluvione del Po più grave di tutti i tempi, fu per l’Italia intera, uscita solo sei anni prima dalla guerra, la traumatica interruzione di un sogno. Quello di anni finalmente sereni e spalancati a un futuro migliore. Le foto dell’epoca dicono tutto: una sagra paesana, un palo della cuccagna, una corsa coi piedi in un sacco ed erano tutti allegri. Anche in quel Polesine affondato nella povertà.
Tra la foce del Po di Levante e quella del Po di Goro, scrive l’ingegnere agricolo Alfredo De Polzer in un rapporto del 1950, l’anno prima della piena, ci sono una dozzina di villaggi appartenenti tutti a pochi latifondisti, dove i seimila abitanti non posseggono nulla, vivono in «costruzioni senza mattoni, salvo focolaio e camino, cioè recinti chiusi con pertiche e coperti di canna palustre, detti casoni, divisi di solito in due vani privi di pavimentazione; mentre all’esterno le pareti sono intonacate di calce, all’interno sono tappezzate da fogli di giornali illustrati». Di più: «Nella stagione invernale le case sono circondate da fanghiglia nella quale si affonda spesso fino al ginocchio...». In ogni stanza vivono mediamente in quattro ma spesso in otto, le donne partoriscono in media 9 o 10 volte ma non sono rari i casi di 18 parti anche se poi molti dei bimbi muoiono infanti, bevono l’acqua dai canali, mangiano quel che pescano e il riso delle risaie padronali dove lavorano tutti dai nove anni in su «mentre i bambini, anche quelli in tenerissima età, restano abbandonati a se stessi» e «l’analfabetismo è al 90%»...
È su quest’umanità dolente che in quel novembre del ’51 s’avventa la grande piena. I veneziani sapevano quanto il Po potesse essere pericoloso. E nel 1600, temendo che il fiume dopo il terremoto di Ferrara spingesse troppo verso nord, avevano deciso di fargli «un salasso come si dovrebbe fare a un corpo infermo, che per sanarlo conviene fare un diversivo degli umori sovrabbondanti». Quattro anni di lavori e, «con il favor del Signor Dio», il Taglio largo all’inizio 167 metri, era già finito. E per tre secoli e mezzo, come spiega il professor Fabio Luino, tra i massimi esperti del tema, autore del saggio Le inondazioni storiche del fiume Po, evitò davvero gran parte dei disastri. Quel mese d’autunno, però…
«In cinque giorni, dall’8 al 12 novembre 1951, sull’intero bacino del Po precipitarono circa 17 miliardi di metri cubi d’acqua, pari alla quantità che solitamente cade in sei mesi», scrivono ne L’alluvione: il Polesine e l’Italia nel 1951 gli storici Mihran Tchaprassian e Paolo Sorcinelli, «a questa già notevole massa d’acqua si aggiunsero le abbondanti precipitazioni che avevano colpito la stessa area nell’agosto e nell’ottobre precedente, e che avevano ridotto al minimo le capacità di assorbimento del terreno». Non solo, la subsidenza aveva causato un abbassamento del fondo marino del Delta, aggravato a partire dagli anni Trenta dall’estrazione nel sottosuolo di acque metanifere.
Fatto è che quando la grande piena ruppe gli argini a Occhiobello, spiega Luino, «furono allagati circa 100.000 ettari di terreno, i due terzi della provincia, con altezze variabili intorno a 2 metri con punte fino a 5-6. E non meno di 8 miliardi di metri cubi d’acqua inondarono il Polesine». «Una superficie più grande del lago di Ginevra», denunciò la Croce rossa internazionale. Quasi doppia.
La tivù non c’era ancora ma le prime pagine dei giornali e i filmati dei cinegiornali, ora a disposizione di tutti grazie all’archivio dell’Istituto Luce, si conficcarono negli occhi e nella memoria di tutti. Le famiglie infagottate sui tetti delle case. Il gatto in cima a un albero. Le cronache epiche su Paride Fabbris, che da Arquà Polesine «senza esitare, si tuffò nell’acqua gelida, cosparsa di carogne, e via a nuoto» per dare l’allarme a Rovigo. E poi la donna impegnata a far bollire sull’argine un brodo di gallina annegata. Le vacche mugghianti strattonate via con la testa a pelo d’acqua. L’arrivo claudicante del presidente Einaudi. E i pompieri, vigili, poliziotti e carabinieri e volontari coinvolti in una straordinaria operazione di salvataggio e consolidamento degli argini...
Era l’Italia che, dopo la guerra civile strascico avvelenato del conflitto mondiale, riscopriva la necessità di stare insieme. Ricominciare. Ripartire. Non tutti però poterono farlo lì, in Polesine. Perso tutto, almeno 116.569 polesani furono costretti ad andarsene per «catàr fortuna» altrove. Soprattutto restando legati al «loro» fiume, ma dalle parti in cui il Po nasce, in Piemonte. Molti si sono affermati, altri meno. Tutti sono pieni di nostalgia. Anche quelli che, come Galliano Dalpasso, di Lama Polesine, baffoni e cappello di paglia calcato in testa, hanno memoria della fame: «Ricordo una vacca morta, dicevano, di difterite. Il veterinario ordinò di abbatterla e seppellirla. In realtà la carne, sottobanco, fu venduta. E la testa seppellita nel nostro letamaio. La notte però mio papà Felicino venne a svegliarmi: “Shhh! Non far rumore, alzati, dammi una mano” Tirò fuori la testa dal letame, le diede con mia mamma una bella lavata e la misero in pentola. Era la vigilia di Pasqua del 1955. E quella fu la nostra Pasqua. Miseria era. Tanta». Settant’anni dopo i polesani restano ancora meno di quanti erano la notte in cui il Po li tradì.