Corriere della Sera, 10 novembre 2021
Biografia di Pierfrancesco Favino raccontata da lui stesso
Con quella faccia – e quel fisico – da maschio Alfa a Pierfrancesco Favino tocca spesso mettere i puntini sulle i. «Sono un romantico, come Alexander, il protagonista di Promises di Amanda Sthers. Solo che non ne ho l’aspetto. Mi sono ritrovato in lui, che rincorre un amore impossibile. Sono un idealista, leale verso i miei sogni. Questa storia è un bel racconto, senza giudizi né sguardo materno, del maschile e delle sue fragilità. Come mi successe con Maria Sole Tognazzi per L’uomo che ama, c’è uno sguardo femminile più incuriosito di vedere in un involucro da maschio Alfa, appunto, caratteristiche emotive che sembrerebbero lontane dagli stereotipi della maschilità. Anche se secondo me gli appartengono, eccome. Ma, a dirla tutta, c’era romanticismo anche nel Libanese, persino in Buscetta. Penso di aver fatto più volte personaggi con un’attitudine romantica, magari non per forza indirizzata verso la coppia». Cinquantadue anni compiuti nell’agosto scorso, padre di due figlie avute dalla compagna Anna Ferzetti, oltre sessanta film all’attivo – tra cui Promises in sala il 18 novembre —, oltre a due in lavorazione, tra i più attesi della stagione: Il colibrì di Francesca Archibugi e Nostalgia di Mario Martone. In curriculum anche una formidabile edizione di Sanremo, diversi David di Donatello e Nastri d’argento, una coppa Volpi.
E anche un’ottima conoscenza delle lingue straniere: qui ha recitato in inglese.
«Alexander non è il classico italiano mafioso ma un uomo cresciuto a Londra, madre inglese e padre italiano, ma che vuole recidere i legami con questa parte della famiglia. Un po’ la sfida di dire “sono capace” me la sono posta, mi sentivo pronto a farlo non solo in un ruolo da comprimario. E devo dire che mi è venuto facile».
Quando ha deciso di fare l’attore?
«L’ho fatto per non dovermi dire un giorno: non ci hai provato. Fu importante la fidanzatina dell’epoca, di mio avrei detto no. Ero un ragazzino da tre film al giorno, zainetto in spalla andavo al festival di Venezia. L’esame per entrare all’Accademia è stato un passo verso l’ignoto».
Andò bene, che ricordi ha?
«Ero il più piccolo. Tra i compagni di corso c’erano Fabrizio Gifuni e Luigi Lo Cascio, mi sembravano uomini fatti, loro 22 anni, io 19, tre anni di differenza ma mi sentivo Calimero».
Insegnanti Orazio Costa e Luca Ronconi.
«Fondamentali. Mi hanno aiutato a cementare un’identità forte, soprattutto a capire quello che non funzionava per me. Con Ronconi ho fatto quattro anni di lavoro con la sua compagnia. Mi stimava, mi diceva: tu sei “Il meglio è nemico del bene”. Era un genio assoluto, una di quelle intelligenze che ti illuminano anche solo passandogli a fianco, mai incontrato altri così capaci di illuminare un testo. Ma come attore ho capito che per sperimentare altro avrei dovuto andare via, non era quello che volevo».
Lo fece?
«Sì. E mentre glielo dicevo, all’Argentina, ho capito che già lo sapevano tutti. C’era un clima pesante, di grande pressione, e io non ho mai pensato che questo mestiere si possa fare senza gioia. Sono un attore più popolare».
Ha debuttato con «Una questione privata» di Alberto Negrin, da Fenoglio.
«Ero ancora in Accademia. Scritto da Raffaele La Capria con un giovane assistente, Paolo Virzì. Feci il provino per la parte del protagonista ma ero troppo scuro. Mi tinsero i capelli. Effetto rosso carota. Tornai in Accademia con il cappello, mi vergognavo. Poi film prese una piega internazionale, mi offrirono un altro ruolo. La prima volta davanti alla macchina da presa, con Negrin che io in quella occasione detesto. Ero un cane, un’esperienza non bella. A distanza di anni me lo vidi arrivare su un set: “Faccio Bartali, mi dicono che tu potresti essere adatto”. E con Alberto ho costruito un’amicizia e sodalizio fortissimi».
Anche con Gabriele Muccino ha lavorato spesso, fin da «L’ultimo bacio». Dice che i vostri destini sono andati ad assomigliare ai personaggi del film. Lei era Marco, l’unico sposato in mezzo a una banda di Peter Pan. Condivide?
«No. Che io creda alla famiglia è vero, ma non ho la chiusura mentale di Marco, non ho quei paraocchi. È stato un film importante, in cui io sono entrato dalla porta laterale grazie alla mia agente Graziella Bonacchi. Sono felice di esserci stato ma a differenza di altri, obiettivamente a me non ha cambiato nulla, ero talmente invisibile. Per me il vero percorso è stato grazie a Bartali, El Alamein di Enzo Monteleone e Romanzo criminale di Michele Placido».
Come ha fatto con il Libanese? Sembra così agli antipodi da lei.
«Un lavoro di ricerca e fantasia. Pensavo che quell’uomo fosse uno di quei bambini che Accattone trovava quando tornava a casa, ho usato tanto Pasolini, quei personaggi con il groppo in gola come stessero per piangere. In certi ambienti non puoi permettertelo, se devi cacciare indietro l’emotività non può che uscire la rabbia. E mi ha aiutato anche l’esperienza del servizio civile a Ostia in una cooperativa di assistenza. Con ragazzini di sette, otto anni. Uno si chiamava Simeone, la prima volta che mi vide commentò: “E mo’ chi è questo str...?”. Due anni dopo ho scoperto che fu ucciso, lo lessi sul giornale. Non ho potuto non pensare a lui. È una balla che partiamo tutti con le stesse possibilità. Ci credo, mando le nostre figlie alla scuola pubblica, ma crescici tu in quelle condizioni. Siamo tutti bravi a dichiaraci pacifisti e progressisti, ma qual è l’esperienza che ti fa dire con certezza: io sono una persona buona?».
Bartali, Pinelli, Di Vittorio, Craxi, Buscetta, anche la voce della statua di Garibaldi. La sua carriera è un compendio di storia italiana, in un derby Favino-Gifuni.
«Felice di dividere la responsabilità con Fabrizio... Scherzo, per me molto è nato per caso e per fortuna. Non ho mai avuto desiderio di specializzazione nel biopic. Aver potuto interpretare Di Vittorio e Craxi è stato interessante, due punti di vista diversi del mondo della politica di cui sono un osservatore attento, interpretarli significa andare al di là del velo della tua opinione. In generale mi sembra che da noi non diamo al cinema il valore di racconto scevro da appartenenza, Craxi me lo ha dimostrato. Anche El Alamein. Tutto diventa un derby. Anche a distanza di decenni. Ma gli artisti hanno diritto di reinventare la storia, pensiamo al polverone che sollevò la camminata di Moro in Buongiorno notte di Bellocchio».
Ha fatto il regista in teatro con «Servo per due». Al cinema il produttore ma regista no, perché?
«Ho molto stima di chi fa regia al cinema, tutti mi spingono, forse un giorno lo farò, ma solo se ne sentissi l’estrema urgenza.».
Per Sanremo ha avuto meno dubbi?
«Venivo da momento in cui avevo fatto teatro, appunto, e detto molti no, che nel nostro mestiere equivale a un ciao. È stato come un All in a poker. Adesso sappiamo che è andata bene ma la verità che in quel momento non mi voleva più nessuno, sapevo che avrei rischiato tutto e che l’ambiente mi guardava molto male per questa cosa. Mi faceva incazzare che le paure che mi spingevano a dire di no non erano le mie. Mi sono detto: ma hai quasi 50 anni, e rischi di non fare una cosa che sai ti appartiene per la paura del giudizio altrui? Ho avuto la buona sorte di essere accompagnato da due matti, Claudio Baglioni e Michelle Hunziker, la buona sorte che nessuno si aspettasse nulla. È stato un successo, dunque un moltiplicatore. Fosse stato un fallimento, sarebbe stato un cratere. Penso che la tv popolare la dovremmo fare tutti, Mastroianni andava a prendersi in giro, Gassman a fare le capriole con Pippo Baudo. Io non faccio lo snob. Le persone hanno voglia di vederti. Diventi uno di famiglia».
A proposito, che padre è, molto papone?
«Pure loro sono papone. Cerco di fare di tutto perché non siano le figlie di Favino, salvaguardo la loro vita, io e Anna cerchiamo di non parlare di lavoro a casa. Hanno visto pochissime cose mie. Io per primo se mi vedo in tv mi innervosisco, cambio, noto quello che non mi piace».
Chi ha iniziato a chiamarla Picchio?
«Mio papà, dava soprannomi a tutti,tranne a Paola, anche alle cose inanimate, tutti noi abbiamo soprannomi: Popi, Chicca e Picchio. Mancano Pluto e Paperino e ci siamo tutti. Lui dava soprannomi anche alle cose inanimate. Io potrei tranquillamente firmarmi Picchio Favino, sono più quello lì che questo con il nome lungo».
Il momento più sgradevole su un set?
«A proposito di quello che è successo a Alec Baldwin, ricordo un episodio. Eravamo in Bulgaria. Avevo un fucile, ovviamente caricato a salve, dovevo sparare bendato. Ho chiesto all’aiuto regista di poter provare l’arma prima e non mi fu data la possibilità di farlo per questioni di tempo. Sparai, il bossolo mi sfiorò le tempie».
Che film era?
«Non importa. Per la prima volta nella vita ho urlato tanto. Mi hanno tenuto, avevo ragione io. Un film può venire male, ma un conto è che sia un incidente, un conto che sia un progetto».
Ha finito di girare «Il colibrì» e «Nostalgia».
«Due esperienze bellissime e diametralmente opposte, film diversi tratti da due romanzi pazzeschi, di Sandro Veronesi ed Ermanno Rea, con due registi molto diversi, Francesca e Mario. De Il colibrì avrei voluto comprare io i diritti. Quando mi hanno chiamato ho fatto i salti di gioia».
Abatantuono ci ha detto che a «Dinner club» ha cucinato Cracco.
«Ma questo lo dice Diego. Certo, se hai Cracco, purtroppo per lui, è come se ti si stacca un bottone e puoi chiamare Armani. Mi sono divertito veramente tanto, ho unito due passioni, i viaggi e la cucina. La più grande soddisfazione quando ho preparato l’uovo di seppia me l’ha data Sorrentino: “quando me lo fai?” Medaglie».
A casa chi cucina?
«Io, e tengo puliti i piani di lavoro».
Piatto migliore?
«Questo piace pure a Valerio Mastandrea, la pluma iberica caramellata al miele cotta a bassa temperatura. Una volta a un pranzo ne ho fatto un chilo e sette, non l’avevo mai visto mangiare così tanto. Quasi un Oscar».