Corriere della Sera, 10 novembre 2021
Le sette vite di Daniel Ortega
Quando Daniel Ortega compirà domani 76 anni, la moglie Rosario Murillo (promossa co-presidente) e gli altri fedelissimi potranno brindare al «leader» più longevo di un intero continente. «Dittatore» invece sarebbe la parola giusta, perché l’uomo rieletto l’8 novembre per la quarta volta consecutiva al vertice del Nicaragua in un voto-farsa senza avversari (sette possibili candidati in grado di batterlo sono in carcere o agli arresti domiciliari) si è trasformato in uno spietato caudillo simile a quell’Anastasio Somoza che i sandinisti costrinsero nel 1979 a fuggire a Miami. Fu una rivoluzione, la sua, che riempì il mondo di speranze. Altri tempi.
La festa dell’11 novembre sarà così una nuova giornata di tristezza per un intero popolo, che accende le candele solo per ricordare le oltre trecento vittime del pugno di ferro con cui sono state stroncate le manifestazioni del 2018. Lui, il «Comandante Daniel», che non è mai stato in realtà una figura carismatica ma una sorta di funzionario del potere di se stesso, ringrazierà la poetessa che conobbe in carcere e che è diventata l’ispiratrice di ogni giravolta. Se portasse ancora quegli enormi occhiali, un po’ a goccia, che non andavano molto accordo con la divisa verde oliva, li metterebbe sul tavolo per asciugare qualche finta lacrima.
È pensando invece alla sue sette vite che Ortega può provare commozione. La sua forza è stata infatti quella di sopravvivere a tutto. Torturato in carcere (vi rimase sette anni, quando da giovane rapinò la Bank of America di Managua per finanziare il fronte sandinista), fu uno dei detenuti scambiati con alcuni ostaggi del regime somozista e mandato a Cuba da dove riuscì poi a rientrare clandestinamente in Nicaragua. Vinta la grande battaglia contro un regime impresentabile, navigò negli anni felici della giunta che tentò di ricostruire il Paese, chiudendo senza troppi danni la pagina poco edificante della guerriglia dei «contras» pagati dall’America di Reagan.
Le sconfitte degli anni Novanta e dell’inizio del 2000 non lo hanno fatto uscire di scena. Eccolo di nuovo, come se niente fosse accaduto, nel 2006 : una data che segna l’avvio dell’involuzione autoritaria e dell’alleanza con il mondo oscuro degli affari (per non parlare delle conversioni mistiche e della virata anti-abortista). Un’ulteriore dimostrazione di resistenza fu la battaglia vinta nel 2009 per cambiare la Costituzione abolendo il divieto di due mandati consecutivi. Questo stratagemma gli consentì di restare ancora al potere, seppur ridimensionato da due rielezioni di stretta misura, nel 2011 e nel 2016. Ma la prova più dura fu rappresentata dalle accuse di stupro lanciate oltre venti anni fa dalla figliastra Zoilamérica, che oggi, in esilio, è una avversaria politica del patrigno e della madre. Ortega ha sempre negato. Si salvò incredibilmente grazie all’immunità parlamentare, spalleggiato senza esitazioni dalla moglie.
Concluso ingloriosamente il capitolo delle elezioni di domenica, è lecito interrogarsi che cosa ci sia nella testa di quest’uomo, quali siano le dinamiche che lo spingono a dichiarare, subito dopo la diffusione dei risultati, rispondendo alle critiche di Bruxelles, che «L’Unione europea ha un parlamento nel quale fascisti e nazisti sono in maggioranza». Alzare il livello dello scontro in maniera scriteriata può essere un sintomo di debolezza. Conviene però non illudersi. Sarà anche il simbolo del «fallimento del socialismo radicale», come dice Mario Vargas Llosa, ma Ortega sta andando vicino ad essere eterno.