Corriere della Sera, 10 novembre 2021
Casini: «Io al Colle? Ho una possibilità su duemila»
C’è una sola cosa che ritiene un’offesa sanguinosa. Non di essere un democristiano incallito: quello lo considera un complimento. E nemmeno di essere un prodotto della «palude parlamentare»: lui alle Camere è stato eletto dal 1983, e tra quei legni, quei marmi, quei tendaggi pesanti, quelle trappole si muove come un vietcong nella giungla vietnamita. In più è stato la terza carica dello Stato come presidente dell’assemblea di Montecitorio dal 2001 al 2006 e ha presieduto l’Internazionale democristiana dal 2006 al 2015. Non lo tocca più di tanto nemmeno il fatto di essere il candidato al Quirinale, «nascosto» ma trasparente, di un tipo come l’ex premier Matteo Renzi, che non gode di grande popolarità, per usare un eufemismo: anche perché non si capisce chi sia a servirsi dell’altro.
No, l’offesa sanguinosa, per Pier Ferdinando Casini, è che una sua corsa possa essere sgambettata dai franchi tiratori. «Esiste una possibilità su duemila che io possa, a un certo punto, essere candidato», usa dire ai tanti che lo sondano in queste settimane. «Ma se lo fossi, potete stare certi che non perderei nemmeno il voto degli scranni vuoti. Pensare che io sia vittima dei franchi tiratori», usa affermare in modo semiserio «è un’offesa quasi professionale»: lui è convinto di domarli, quelli che nel segreto dell’urna tendono agguati. Orgoglio di veterano della politica, cresciuto nelle istituzioni. E soprattutto, di tessitore instancabile di contatti personali e trame parlamentari: e se non sono a trecentosessanta gradi, è solo per volontà altrui.
Lo ha imparato al seguito di leader democristiani come Arnaldo Forlani, col quale è ancora in contatto nonostante sia da anni fuori gioco, e gravemente malato. Poi accanto a Silvio Berlusconi, rompendo nel 1994 con la Dc di Mino Martinazzoli e schierandosi col centrodestra. E ancora, nel 2013 nella strana alleanza di Mario Monti: un tecnocrate col quale ha rotto quasi subito, perché gli ha fatto perdere seggi e anche perché lo considerava un estraneo rispetto al Parlamento. Ora che, sulla soglia dei 66 anni, è senatore eletto nelle liste del Pd in una Bologna di sinistra, dove andava a raccogliere i voti senza nascondere il proprio anticomunismo storico, si guarda intorno fiutando l’aria e rivendicando il ruolo e il peso delle aule parlamentari.
Ha solidi rapporti con una rete di ex dc che oggi ritrova dal Pd a Forza Italia. Cerca di sondare indirettamente le intenzioni del segretario dem, Enrico Letta, che gli appare da mesi come una sfinge. Se nel fine settimana a qualcuno capita di andare a messa nella chiesa del Gesù, nel cuore del centro di Roma, assisterebbe a una scena sorprendente: Casini che parlotta con il grillino Vincenzo Spadafora, cattolico, uomo-cerniera con Luigi Di Maio, col quale pure ha instaurato buoni rapporti. E poi ci sono i corsari del renzismo: truppe di guastatori pronte a ostacolare qualunque candidato sgradito, anche se non a farne eleggere un altro.
Ma Casini sa di potere sperare solo in questo: votazioni che vanno a vuoto una, due, tre volte. Fino a che un Parlamento a Camere riunite, sfibrato, si guarda intorno e cerca una via d’uscita. È vero che con i partiti di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni ha rapporti ridotti al minimo: per uno come lui, democristiano e centrista fino al midollo, si tratta di estremisti più o meno irrecuperabili. Eppure, un seme, un piccolo segnale l’ha mandato anche al capo della Lega, quando ha votato contro l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti nel febbraio del 2020: unico della maggioranza. «Va battuto politicamente, non sul piano giudiziario», spiegò. Una mossa astuta, forse, ma non nuova. Quando negli anni Novanta Giulio Andreotti fu processato a Palermo, Casini si presentò in tribunale con un altro ex dc, Clemente Mastella, in segno di solidarietà.
Sarebbe un azzardo, tuttavia, dire che questa rete di reduci, «nuovi», e orfani di futuri seggi equivalga a una maggioranza parlamentare. Si tratta di un coacervo di minoranze che «Pierfurbi», come lo chiamano con affettuoso o velenoso sarcasmo, sogna di saldare in nome della difesa del Parlamento e, più prosaicamente, della continuazione della legislatura fino al 2023. Per questo, non smentisce la vulgata di un governo di Mario Draghi dall’orizzonte limitato alle elezioni per il Quirinale. Segue da osservatore i movimenti della lobby anti-premier che ogni tanto si materializza. Cerca di capire quanto il «no» di Sergio Mattarella alla rielezione possa essere scalfito da qualche imprevisto.
E intanto riceve deputati e senatori, registra ogni richiesta, ogni timore. Ausculta i messaggi che arrivano dalle istituzioni di Bruxelles, e che accreditano una preferenza per Draghi al Quirinale come garanzia per l’Italia nei prossimi sette anni. Ma l’ex presidente della Bce potrebbe essere la preda perfetta per quei franchi tiratori che Casini esorcizza per se stesso. Centinaia di «no», in grado di fare impallidire la fronda che affossò la candidatura di Romano Prodi nel 2015. Sarebbe una sorpresa. Ma forse anche, nella fase di emergenza che il governo sta affrontando, la sublimazione di un suicidio collettivo del sistema politico. In uno dei momenti di frequente buonumore, Casini passa in rassegna con i suoi confidenti tutti gli scenari, anche i più estremi, e poi sospira, col sorriso malandrino: «Fratello, siamo nati per soffrire». Pausa: «Anche se non ci riusciamo». È l’abbozzo della sua autobiografia.