Linkiesta, 10 novembre 2021
Bloccare sui social non è reato (sul caso Calenda-Pastore)
Meno male che andavo male a scuola. Pensa se fossi stata una di quelle mie compagne con tutti nove. Una di quelle mie amiche ligie, che hanno fatto tutta l’università per benino puntuali coi libri sottolineati. Pensa se avessi studiato, e mi trovassi qui, a quarantanove anni (sessantanove percepiti), a raccontare che il fatto di ieri è che un politico abbia bloccato sui social un ventunenne già candidato in una lista dal politico stesso concepita.
Il politico è Carlo Calenda (che non aggettiverò in alcun modo giacché non è ancora stato inventato un aggettivo per il quale Calenda non s’impermalisca, ma gli scienziati ci stanno lavorando); il ventunenne è Roman Pastore, che forse – se passate anche voi le vostre giornate a interessarvi di stronzate invece che a rileggere Proust – ricorderete per i due giorni in cui egli fu lo scandale du jour in quanto proprietario d’un orologio semicostoso.
Il collegio di Twitter, sempre attentissimo ai dettagli davvero rilevanti, linciò brevemente il giovane Pastore e con lui Calenda, perché – perdindirindina – che lista di sinistra è se i suoi candidati non scoprono che ora sia osservando l’ombra degli obelischi (che oltretutto a Roma, di cui Calenda si candidava a sindaco, abbondano).
Calenda aveva difeso il ragazzo – che, ricordiamolo per una più serena valutazione dei fatti, ha ventun anni, ed è quindi ontologicamente scemo – poi l’aveva pubblicamente strigliato per qualche ulteriore foto in posa vanziniana con «pataccone» (cit. calendiana, per esteso: «Un po’ vistoso? Era un pataccone orrendo») in primo piano, poi le elezioni erano andate e tutto era stato detto e tutto perdonato.
Ma ieri, a campagna elettorale terminata, a invasati che l’avevano dimenticato, Pastore riavvia il dramma. E lo riavvia dal punto più dolente della contemporaneità. Vi ricopio il suo tweet: «Ma come? Mi candido con te, mettendoci la faccia a soli 21 anni. Ricevendo insulti, minacce e cattiveria. Mi chiamano stampa e tv e per evitare strumentalizzazioni mi faccio giustamente da parte. Ora perché esprimo perplessità su certe tue dichiarazioni mi blocchi?», cinguetta Pastore aggiungendo il più vittimista e il più diffuso degli screenshot, quello in cui compare la temibile dicitura «Tizio ti ha bloccato», e Tizio è Carlo Calenda.
Ora, io ho 49 anni e Roman Pastore 21. In un mondo sano di mente, le nostre dialettiche non dovrebbero incrociarsi. Roman Pastore, d’età guccinianamente ancora intera, ha tutto il diritto di prendere sul serio se uno ti blocca o ti segue o ti cuora o ti sarcazza su un social. I miei coetanei no.
E invece sono i miei coetanei che passano le giornate a controllare chi li blocca, li segue, li cuora, li sarcazza. Se voi aveste idea del numero di persone che negli anni mi hanno chiesto conto del fatto che avessi smesso di seguirli, o che avessi cuoricinato Caio a loro avverso, o che seguissi Sempronia nemica d’una loro amica, se voi sapeste che questa classe dirigente che ha l’età dei datteri passa il tempo a pensare che i social siano una cosa seria, una cosa rilevante, una cosa realmente esistente, io ve lo dico: voi vi spaventereste moltissimo e fuggireste nella capanna di Unabomber, ove finalmente vivere disconnessi e senza il rischio di coprirvi di ridicolo.
La prima intervista che ho fatto per L’era della suscettibilità è stata, su Radio Capital, con Daria Bignardi: in onda ha detto che le avevano scritto in molti obiettando all’intervista perché «Soncini mi ha bloccata sui social». Mi fece ridere, ma ancora non sapevo che tutti i mesi di promozione di quel libro sarebbero stati puntellati di «ma come fai tu a parlare di suscettibilità che mi hai bloccato». L’umanità pensa che bloccarla su un social sia significativo: che pigiare «block» dica che sei ferita nel profondo, che ci pensi, che dedichi al blocco di Tizio più della frazione di secondo d’attenzione necessaria a pigiare «blocca Tizio».
La vera domanda è: ma perché invece Tizio se ne accorge, se ne ricorda, se ne ha a male? Perché Tizio bada al fatto che una che non conosce abbia pensato di lui «sei troppo stupido per vederti comparire sul mio schermo»? (Con minime variazioni, la motivazione con cui chiunque blocca chiunque altro è sempre questa).
Sono stata bloccata da Salman Rushdie e da Roxane Gay e da Augusto Minzolini e da Alessandro Gassmann, oltre che da chissà quanti altri di cui non mi sono accorta: è cambiato qualcosa, per questo, nella mia vita? Oltre al fatto che, se esce un’intervista a Salman Rushdie, ci metto qualche giorno in più a scoprirlo perché non vedo la sua segnalazione. È cambiato qualcosa, bloccandomi, nella loro vita? Neppure io, che sono la più megalomane del continente, credo si ricordino d’averlo fatto o si siano accorti che esisto (no, per bloccare qualcuno non devi accorgerti che quel qualcuno esista: è un clic, non è un tuo amico, non è un fattorino che ti porta la pizza, non è nessuno; l’automobilista sgarbato che incroci al semaforo è più rilevante, nella tua giornata, del tizio su cui fai clic).
Nel pomeriggio di ieri Calenda va in tv, nel programma di Serena Bortone. La quale, scambiando il proprio WhatsApp per il paese reale, gli domanda di Pastore con la motivazione «mi hanno scritto in quattro». Se quattro conoscenti d’una giornalista s’interessano d’un trending topic, esso appassiona certamente l’elettorato.
Calenda non avrà un bel carattere, ma per una volta ha ragione a sbuffare: gli stanno chiedendo perché ha bloccato il pataccone. Dice che lui ma che diamine ne sa, che l’avrà bloccato il suo «team social», che ora chiederà di sbloccarlo.
Me lo vedo, Roman Pastore, che in serata ricarica compulsivamente la pagina, come Mark Zuckerberg nell’ultima scena di The Social Network. Zuckerberg voleva sapere se l’ex fidanzata avesse risposto al suo messaggio, ed è così che siamo finiti. Adulti che controllano se li blocchi e li sblocchi come i ventenni controllano se la tizia che gli piace ha visualizzato il messaggio senza rispondere. Come quando facevamo le mute dal telefono fisso, nel Novecento. Che imbarazzo. Con tutto quello che hanno speso per farvi studiare.