La Stampa, 10 novembre 2021
Giuliano Montaldo e la sua Vera
Chiedetemelo di nuovo che cos’è l’amore. Chiedetemelo oggi, dopo la serata di consegna dei Globi d’oro, i premi assegnati dalla stampa estera al cinema italiano, alla quale ho partecipato due sere fa. Eravamo nella Sala Petrassi dell’Auditorium di Renzo Piano, a Roma. Seduti e un po’ sbronzi: alcuni Negroni avevano preceduto l’entrata in sala. Si beve sempre un po’ prima delle premiazioni, che, diciamolo, non sono uno spasso. Di solito si diverte solo chi viene chiamato sul palco e inciampa e poi balbetta i ringraziamenti e si commuove e poi scende di corsa le scale e inciampa di nuovo. Ma quando siede di nuovo nella sua poltrona ricomincia a scalpitare e pensare soltanto a quando potrà andarsene. Anche perché i riconoscimenti sono pubblici ma la felicità è privata. Solo le persone davvero speciali sono capaci di condividere la felicità, per non parlare dell’amore.
Questa serata, però, rispetto al solito ha una sua grazia e un certo brio. I presentatori sono scanzonati, le motivazioni esatte, i premi ben assegnati. Filiamo abbastanza leggeri, forse anche perché i Negroni con cui ci hanno ammansito erano buoni ed efficaci. Anche io siedo su una poltrona sulla cui spalliera c’è un cartello col mio nome, ma il mio nome è scritto sbagliato. Non importa, mi sento comunque abbastanza allegra e privilegiata a star lì, quando, come tutti, accolgo con un po’ di disappunto l’annuncio che il prossimo premio sarà il Globo d’oro alla carriera. Sono quei premi con cui si infarciscono le serate, offrendo al pubblico - televisione, streaming, sala - nomi molto noti ma spesso un po’ appassiti. Rompono il ritmo della competizione e sfastidiano i candidati, che scalpitano di poter ricevere il loro trofeo, inciampare, balbettare, ringraziare…
Il Globo d’oro alla carriera di quest’anno è stato assegnato a un regista che tra qualche minuto dirà che ha chiuso serenamente la saracinesca alle sue spalle. Dobbiamo farci bastare Sacco e Vanzetti, Gli occhiali d’oro, L’Agnese va a morire e tanti altri suoi bellissimi film, scopriamo, perché di cinema non ne farà più. Neanche li riguardo mai, dice Giuliano Montaldo seduto sulla sua carrozzina in mezzo al palco, e sorride. Mi sono operato all’anca, spiega, per questo sono seduto. Ha 91 anni, una voce potente e sicura e un’intelligenza che luccica. Ho lavorato sessant’anni nel cinema, dice, e l’ho fatto sempre insieme a una donna. Questa donna, che è anche sua moglie più o meno da quei sessant’anni, è Vera Pescarolo. Figlia di una famosa attrice, Vera Vergani, sorella di un produttore, Leo Pescarolo, ha conosciuto Montaldo dopo un matrimonio concluso con un divorzio. Aveva già una figlia, Elisabetta, che è stata adottata dal regista. La loro storia l’ha raccontata Fabrizio Corallo in un documentario, Vera e Giuliano, uscito un paio d’anni fa.
Aneddoti, ricordi, storie meravigliose di viaggi e di film. È giusto che anche lei sia qui con me, su questo palco, aggiunge Giuliano Montaldo. E si gira, sornione, verso la stessa quinta da cui è entrato lui. E in quel momento vediamo apparire un’altra carrozzina, sulla quale è seduta una donna che ha lo stesso, meraviglioso sorriso di lui. Adesso sono uno accanto all’altra, e ci guardano. Credo che tutti noi avvertiamo la stessa cosa in quel momento, ed è la ragione per cui ci alziamo in piedi per applaudire. Un’allegria prima di tutto, per niente solenne ma rispettosa e ammirata. Ma pur sempre un’allegria, leggera, persino maliziosa. Come quando, voilà, il domatore esce dalla gabbia dei leoni e si inchina. E ci prende quel senso di sollievo per il pericolo scampato e la voglia di abbracciarci. Raddrizziamo le spalle, ci sentiamo pronti per una nuova sfida. Come se quel leone l’avessimo addomesticato noi.
Ci sentiamo così, mi pare, come se avessimo visto un numero perfetto. E infatti sorridiamo tutti guardando il palco, guardando quel modo strampalato e vivo di presentarsi uno accanto all’altra seduti su quelle sedie, come se fosse la cosa più divertente del mondo. E lo è, tutti quanti ne siamo così sicuri che vorremmo uscire di corsa e metterci a fare le gare per i corridoi dell’Auditorium, rincorrendoci con le sedie a rotelle. Poi Giuliano Montaldo riprende a parlare ma neanche per un istante abbandona quella sprezzatura, quella abilità di domare i leoni che gli fa dire cose serie senza smettere mai di farci credere che non è così difficile. E Vera Pescarolo accanto lo guarda, e le loro gambe e le mani che si muovono sembrano cercarsi anche se le sedie sono troppo lontane.
I Felici Pochi li chiamava Elsa Morante ne Il mondo salvato dai ragazzini. Giovani e vecchi, ricchi e poveri, celebri e flagranti o sconosciuti e nascosti, gli F.P. hanno una cosa in comune: sono tutti e sempre bellissimi. E come si distinguono? Ma dal fatto che sono felici! Perché la felicità esiste, ed è invisibile soltanto a chi ha negli occhi «la cispa dei troppi fumi d’irrealtà»: gli Infelici Molti.
Chiedetemelo di nuovo che cos’è l’amore, dopo aver visto quei due ragazzini ieri sera che scherzavano sulla loro sedia a rotelle. La sedia elettrica, come la chiamava Bernardo Bertolucci - altro ragazzino della stirpe dei Felici Pochi - quando non potè più farne a meno. L’amore non è il tempo, credo, non è nemmeno la smania di conoscersi se si è diversi o riconoscersi quando si è uguali. Non è soltanto la complicità, né l’incastro perfetto dei corpi. L’amore, ieri sera l’ho capito, è quella risata. Perché io so una cosa, scrive ancora Elsa Morante, «Pure se ci fa tremare / per gli spasmi e la paura / tutto questo / in sostanza e verità / non è nient’altro/che un gioco».