La Stampa, 10 novembre 2021
Quelle madri parallele dopo lo scambio di embrioni
Madri parallele, come nell’ultimo film di Pedro Almodovar. Se fosse fiction, basterebbe un abile regista a sbrogliare la matassa, a connettere i fili invisibili che legano due vite scambiate non in culla, ma addirittura in provetta. Qui invece siamo in California, nella vita vera di due donne che hanno messo al mondo ognuna la figlia dell’altra, per uno scambio di embrioni avvenuto in una clinica dove si pratica la fecondazione artificiale.
Una delle due donne, Daphna Cardinale, ha avuto subito il sospetto che quella bambina non fosse sua, per il colore più scuro della pelle. Insieme al marito Alexander ha chiesto l’esame del Dna, ma intanto aveva tenuto la figlia sbagliata per nove mesi nella pancia, l’aveva sentita crescere dentro di sé, aveva ascoltato i calcetti e i movimenti. Si era affezionata a questa figlia sbagliata prima ancora che nascesse e poi l’aveva cullata e allattata per i primi tre mesi di vita.
I Cardinale e l’altra coppia, che ha preferito rimanere senza nome, hanno fatto causa alla clinica. Nella denuncia si legge: «I Cardinale, compresa l’altra loro figlia più grande, si sono innamorati di questa bambina ed erano terrorizzati all’idea che sarebbe stata portata via. Per un lungo periodo Alexander e Daphna non hanno saputo dove si trovasse il loro embrione, e quindi erano terrorizzati che un’altra donna fosse incinta del loro bambino - e il loro bambino fosse nel mondo da qualche parte senza di loro».
Siamo in America, le due coppie vinceranno la causa e avranno un lauto risarcimento, ma qui finisce la parte della cronaca di questo incredibile caso di figlie e madri sbagliate.
Quando accadono fatti come questi, si aprono orizzonti di interrogativi che diventano praterie disseminate di domande destinate a rimanere senza risposta. Diventano semmai spunti di riflessione su cosa significhi veramente essere genitori, crescere un figlio, essere eventualmente madri parallele, occuparsi di figli che non sono nostri, ma che ci appartengono lo stesso. A chi appartengono i figli, ai genitori biologici o a chi li ha partoriti e li ha cresciuti? Basta essere genitori biologici per essere buoni genitori? E per rimanere al caso delle due madri californiane, che vite avrebbero fatto le due bambine, in famiglie che non erano le loro? Avrebbero veramente vissuto vite che non erano le loro, oppure ognuno la propria vita se la scrive con il proprio inchiostro? Quanta parte ha la genetica nel determinare il carattere e il futuro di una persona e quanta invece è l’ambiente in cui si cresce che ci fa diventare quello che siamo?
Da quanto si legge nella cronaca del fatto, i Cardinale e l’altra coppia anonima hanno per il momento deciso di formare «una famiglia più grande», una sorta di famiglia allargata, dove c’è spazio per dare amore incrociato a entrambe le bambine e anche alla sorellina più grande, che si era affezionata alla sorella «sbagliata». L’altra coppia «era innamorata della nostra figlia biologica quanto noi della loro» ha commentato Alexander. Tutto è bene quel che finisce bene, sembrerebbe.
A me la vicenda ha fatto tornare inmente la celebre pagina del poeta libanese Khalil Gibran, dove una donna chiede al Profeta (il titolo del libro) di parlarle dei suoi figli. Ecco la risposta: «I vostri figli non sono vostri./ Sono i figli e le figlie della forza della Vita./ Nascono per mezzo di voi, ma non da voi. /Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono».
Ecco, vista sotto questa lente, se anche ognuno si fosse tenuto la bambina «sbagliata», non sarebbe stato poi un gran dramma.