la Repubblica, 10 novembre 2021
Pittori alla sbarra
A Roma, alla fine del Cinquecento, si poteva anche essere processati «per eccessi». È quello che accade a Federico Zuccari, pittore e intellettuale, protagonista della storia dell’arte con la sua continua presenza nelle Accademie della seconda metà del Cinquecento, con l’esecuzione di ambiziose decorazioni murali, dal palazzo Farnese di Caprarola alla cupola del duomo di Firenze. Ha travalicato di sicuro i limiti della professione, scrivendo di viaggi e di teorie artistiche, ha attraversato i confini geografici dell’Italia, arrivando a Parigi ad Anversa e fino a Londra, al cospetto di Elisabetta I, di cui nel 1575 disegna il ritratto. In un certo senso eccede anche i tempi, ritrovandosi, dopo una lunga carriera nell’ombra lunga di Raffaello e Michelangelo, all’inizio del Seicento, in quel formidabile primo decennio che vede a Roma i più grandi talenti europei: Annibale Carracci, Caravaggio, Guido Reni, nelle stesse strade di Rubens e Adam Elsheimer. E in questo nuovo tempo, di cambiamenti e stupori, è autorevole e ascoltato, ancorché in là con gli anni, stanco per i viaggi continui e per le imprese notevoli in cui impegnava forze e intelletto. Giovanni Baglione, pittore e biografo, lo ricorda come un artista favorito dai grandi mecenati, arricchito da grandi guadagni, ma bersagliato dalla fortuna: le avversità della sua vita sono in realtà quasi tutte riconducibili alle dispute con gli altri artisti, condotte con una vena polemica che spesso, oltre ai colleghi, non aveva risparmiava i suoi committenti.
Una di queste si trasformò proprio nel processo del 1581, appunto per “eccessi”: Federico Zuccari era accusato di aver pubblicamente dileggiato Paolo Ghiselli, familiare del papa Gregorio XIII,al secolo il bolognese Ugo Boncompagni, appendendo un disegno sulla porta della chiesa di San Luca all’Esquilino in cui il malcapitato veniva raffigurato nudo e con le orecchie d’asino. Era chiaro il riferimento a Mida, il giudice ignorante per antonomasia, così trasformato da Apollo per non aver saputo giudicare l’eccellenza dell’arte nel corso della contesa fra il dio della poesia e Pan. Come già accaduto qualche volta in precedenza, Federico stava usando la sua cultura letteraria e i riferimenti eruditi per rispondere ad accuse rivolte alle sue opere. Sembra, per esempio, che le due versioni dipinte, i disegni e le incisioni della Calunnia di Apelle fossero destinate al cardinale Alessandro Farnese, che l’aveva licenziato dal cantiere di Caprarola nel 1569; così il Lamento della pittura, altra composizione allegorica diretta contro i pittori fiorentini che avevano criticato nel 1579 la sua opera nella cupola del duomo di Firenze, dove aveva portato a compimento i lavori dopo la morte di Giorgio Vasari.
Tornato quindi a Roma dopo l’infelice conclusione dei lavori fiorentini, Federico aveva ricevuto una commissione importante da Paolo Ghiselli, “scalco” pontificio: un cuoco di alto livello, responsabile delle cucine del pontefice e quindi desideroso di sottolineare la sua ascesa sociale addobbando una cappella in Santa Maria del Baraccano a Bologna, sua città natale. Il soggetto era la Processione di San Gregorio Magno e alla sua realizzazione Zuccari dedicò un certo impegno, testimoniato dai numerosi disegni ancora esistenti; tuttavia l’opera non piacque, probabilmente perché criticata con veemenza dai pittori bolognesi che tenevano a proteggere il mercato artistico della città da incursioni “straniere”. Trovarono terreno fertile nel committente, incapace di giudicare da solo per le scarse cognizioni in materia e che pertanto si spinse a rifiutare l’opera, rispedita a Roma e sostituita con la versione dello stesso soggetto da parte di Cesare Aretusi. A questo punto Zuccari, desideroso di difendere la propria reputazione facendo fra l’altro sfoggio di quella densa cultura umanistica che il committente non possedeva, appese il famigerato cartone illustrandolo a gran voce. Di queste spiegazioni effettivamente forse non c’era neanche il bisogno poiché l’ambizioso cuoco compariva appunto ritratto in primo piano con le poco lusinghiere orecchie d’asino e circondato di animali pericolosi, come il cinghiale e la volpe, di figure sinistre e ripugnanti, come l’Invidia sdraiata a terra e avvinghiata alla gamba dell’Ignoranza, in compagnia di altri personaggi deformi a queste apparentate, come la Maldicenza e la Diffamazione. Al centro, a difendere l’operato dell’artista, una coraggiosa Minerva che incede e sbarra l’entrata al giardino della Virtù.
L’episodio poteva forse restare nell’ambito delle rivalità e delle liti fra gli artisti, ma il coinvolgimento dell’importante e suscettibile personaggio della corte, vittima di una offesa pubblica, portò fino al tribunale: gli “eccessi” furono ravvisati proprio nell’aver voluto insultare, seppur con l’arma dell’allegoria, non solo gli altri pittori, ma qualcuno di più vicino al pontefice. La vicenda è ora perfettamente ricostruita da un libro recente, Porta Virtutis. Il processo a Federico Zuccari, di Patrizia Cavazzini con la collaborazione di Yara Cancilla (De Luca Editori d’Arte), primo volume di una collana molto promettente, diretta da Michele Di Sivo e da Massimo Moretti, Artisti in tribunale.
La completa pubblicazione dei materiali giudiziari, accompagnati dalla trascrizione, è in questo primo saggio condotta di pari passo con l’individuazione e la schedatura di tutte le opere citate, come per esempio i disegni e l’esemplare dipinto della Porta Virtutis, ora alla Galleria Nazionale delle Marche di Urbino; così la storia e i suoi protagonisti prendono forma e colori e ad emergere sono tutte le diverse figure, accompagnate dalle biografie. Ognuno ha il suo movente, le sue preoccupazioni, la reputazione da difendere e mette in campo tutte le armi possibili. Durante il processo questi si era sempre proclamato innocente, ripetendo di non aver voluto ritrarre nessuna persona conosciuta all’interno dell’opera; continuerà quindi a scrivere a tutti i suoi mecenati sostenendo di essere stato condannato solo a causa della sua “poca sorte”. Il duca di Urbino Francesco Maria II della Rovere, che davvero si era adoperato presso il pontefice in suo favore, sarà il destinatario della versione dipinta dell’opera; ma Federico ricorse anche a Alessandro Farnese, che appunto tanti anni prima era stato suo bersaglio per motivi simili, all’epoca del cantiere di Caprarola. In quel caso pare che il Farnese non se l’avesse a male, anzi, secondo le parole di un contemporaneo, «la prese in burla». Non tutti erano però il Gran Cardinale, che poteva anche sorridere degli attacchi di un artista e anzi continuare a proteggerlo e a porgergli altre occasioni di dimostrare il proprio talento.