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 2021  novembre 10 Mercoledì calendario

Intervista al capo dell’Esercito Pietro Serino

Poche settimane fa durante un’esercitazione i nostri tecnici hanno paralizzato un’autoblindo Centauro senza sparare un colpo: con un virus informatico hanno bloccato il computer che controlla il motore.
Usare la cyber per conseguire “effetti inabilitanti” ci può permettere di ottenere gli stessi risultati senza impiegare strumenti letali. Questo porterà a rivedere completamente il modo di condurre le operazioni: la componente cyber avrà una crescita esponenziale». Sette mesi dopo essersi insediato al vertice dell’Esercito, il generale Pietro Serino parla per la prima volta e descrive gli scenari di cambiamento della forza armata. Ufficiale delle trasmissioni, Serino ha una passione per l’innovazione tecnologica e una lunga esperienza di pianificazione strategica. E sin dall’inizio della pandemia, come capo di gabinetto del ministro Lorenzo Guerini, ha contribuito a gestire l’intervento dei militari contro il virus.
Che lezioni ha tratto l’Esercito dall’emergenza Covid?
«La principale è che siamo riusciti a reagire bene perché siamo addestrati al combattimento: un termine che può sembrare forte, ma è la sintesi dei fatti. La capacità di operare anche quando noi stessi siamo sotto minaccia penso ci distingua dalle altre strutture.
Mantenersi preparati all’eventualità di un conflitto è l’essenza della nostra professione e ci mette in condizione di essere utili al Paese in ogni situazione».
Non a caso, molti capi di Stato hanno paragonato la pandemia a una guerra. Voi eravate pronti?
«Nell’emergenza abbiamo compreso l’importanza dell’autonomia logistica. Cosa significa? La forza armata deve essere indipendente in tutti i suoi reparti. Venti anni fa avevamo fatto valutazioni diverse: all’epoca sembrava ci fossero solo le missioni all’estero e pensavamo di potere affidare alcuni compiti ad aziende ed enti civili, ottenendo risparmi. Ad esempio, è accaduto nella sanità militare che ha subìto tagli forti. Infine si è dimostrato il valore di una presenza distribuita sul territorio. Se non avessimo avuto reparti dislocati in tutta la Penisola non saremmo riusciti a contribuire in modo capillare alla lotta contro la pandemia».
I soldati oggi hanno un’età media molto alta. Cosa pensate di fare?
«Vogliamo cambiare i criteri di reclutamento. Il disegno di legge preparato dal mio predecessore, il generale Salvatore Farina, elimina la figura dei volontari arruolati per un solo anno: la ferma minima sarà di tre anni, rinnovabili per altri tre. Con un periodo di servizio lungo potremo investire nella formazione.
E più il personale è specializzato, più sarà facile l’inserimento nel mondo del lavoro una volta lasciato l’Esercito».
Il suo predecessore aveva
presentato in Parlamento l’urgenza di aumentare l’organico...
«Penso a un incremento mirato perché abbiamo bisogno di professionalità specifiche. Anzitutto medici, infermieri e tecnici di laboratorio. Poi ingegneri e informatici per rispondere all’esigenza cyber».
Sono le figure più richieste sul mercato del lavoro. Come pensate di reclutarle?
«Noi abbiamo la capacità di formarle. Disponiamo di scuole di alto livello con la possibilità di fare crescere i giovani attraverso l’attività operatività. Inoltre tutte le amministrazioni pubbliche hanno bisogno delle stesse figure: si può ipotizzare che vengano selezionate e preparate dalle forze armate, per poi passare dopo un certo numero di anni a disposizione delle altre strutture statali».
Quindi non volete fanti, ma specialisti. Quanti?
«Non numeri altissimi: qualche migliaio. Altro personale sarà recuperato con il calo dell’impegno nell’operazione Strade Sicure, che è nata come risposta all’escalation di attentati. Le linee guida del ministro hanno permesso di ridurre mille militari nel 2021 e altri mille sono previsti per il prossimo anno».
Per trent’anni siete andati in missione all’estero per mantenere la pace. Oggi però nel mondo tornano scenari di guerra convenzionale, che richiedono forze pesanti come i carri armati…
«Stiamo rivedendo tutto in questa prospettiva, che dalla fine della Guerra Fredda era passata in secondo piano. Certo, nel 1993 avevamo circa 1.100 carri, oggi sono poco più di 100. L’ammodernamento delle forze corazzate è un’esigenza ma anche un’opportunità per l’intero Paese. È l’occasione per soddisfare l’ambizione dell’Esercito ad avere un interlocutore forte nel settore dell’industria, come lo è Fincantieri per la Marina, che diventi il nostro referente».
Ricostruire le forze pesanti richiederà parecchi miliardi. Ci sono le risorse?
«Sono stati previsti fondi iniziali per due miliardi, soprattutto per sostituire i cingolati da combattimento Dardo. Proprio per la rilevanza degli investimenti, non possiamo limitarci ad acquisire un sistema all’estero: dobbiamo trovare le modalità perché l’industria italiana partecipi da protagonista.
Per questo stiamo ipotizzando di estendere la vita operativa dei Dardo per dieci anni: il tempo guadagnato ci consentirà come “Sistema Paese” di attrezzarci a essere parte dei programmi di Difesa europea che stanno nascendo».