il Giornale, 9 novembre 2021
Se Dostoevskij vuole essere odiato
Secondo Lev Sestov bisogna cominciare a leggere Fëdor Dostoevskij dal Sogno di un uomo ridicolo, il racconto fantastico pubblicato nel 1877 sul Diario di uno scrittore, stravolto zibaldone dove elzeviri, affondi di geopolitica, cronaca nera, ideologia mesmerica e brandelli di romanzo si mescolano in alto linguaggio profetico, che sfonda tutte le gamme dell’esagerazione. Il sogno di un uomo ridicolo non è il testo più bello di Dostoevskij, nato duecento anni fa esatti; è quello che in vitro una ventina di pagine ne riassume tutti i temi. Il protagonista, ennesima variazione dell’uomo del sottosuolo «Sono un uomo ridicolo. Adesso poi loro dicono che sono pazzo» è un nichilista assoluto, certo che «al mondo ovunque tutto è indifferente». Vuole suicidarsi; la notte è lurida di pioggia; una bambina, a stracci, chiede il suo aiuto, lui la scaccia; un sogno, di fosca veemenza, impedisce al tizio di ammazzarsi. Il finale è felicemente violento: l’uomo ridicolo, pavido paladino dell’insensatezza del tutto, ora crede che tutto abbia senso, «amo coloro che ridono di me più di tutti gli altri»; eppure, quegli altri continuano a prenderlo per pazzo. Entusiasta, l’uomo ridicolo vaga, senza tetto, senza nulla, a predicare Cristo, l’amore universale, il Vangelo nella sua feroce, inappellabile urgenza. Ci schianta, qui, la folle coerenza dello jurodivyj, il pazzo di Dio, l’asceta che abbandona il mondo, lacero, tra le fauci del Dio vivente, secondo le parole che San Paolo rivolge ai Corinzi: «Noi siamo stolti a causa di Cristo... benediciamo chi ci insulta, perseguitati sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti!».
La morale proposta dall’uomo ridicolo, «ero io, io solo, il colpevole di tutto», replica quella che il monaco Tichon scaglia in faccia a Stavrogin, nei Demoni («Peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui»), ulteriormente raffinata nei Fratelli Karamazov («ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutto, e io più di tutti gli altri»). Secondo Lev estov, che ha fatto di Dostoevskij il cardine del suo pensiero, «L’opera di Dostoevskij è inesauribile. Pochi hanno, come lui, saputo aprire senza riserve la loro anima ai supremi misteri dell’esistenza umana». Chi legge Dostoevskij, cioè, sappia di dover «vivere ore, giorni, anni in un’atmosfera di evidenze contraddittorie, che si escludono a vicenda», consapevole «che non sono le opere, ma la fede a salvarci... che Dio esige sempre l’impossibile... che quaggiù tutto comincia ma nulla finisce... che la vita è la morte e la morte è vita». La lotta contro le evidenze: così s’intitola il saggio che Lev Sestov scrive «in occasione del centenario della nascita di Dostoevskij»; un secolo dopo, raccolto in un libro inattuale, un poco negletto, Sulla bilancia di Giobbe (Adelphi, 1991), è ancora il testo che con più forza ci getta nell’allucinata grandezza dello scrittore russo.
Dostoevskij, piuttosto, non va celebrato, è impermeabile a ogni tentativo di relegarlo nei ranghi della storia della letteratura, non si lascia addomesticare, fugge le beatificazioni postume. Dostoevskij resta, restio ai dibattiti intellettuali ora più di allora, repellente, uno che avvelena le sorgenti della morale progressista. Leggere Dostoevskij è porsi dalla parte dei rivoltosi, dei disastrati. Dostoevskij fa schifo vuole che gli sputiamo addosso, che lo massacriamo, perché è insopportabile e continua a dire ciò che non deve essere detto.
Per capire cosa scrivo bisogna sfogliare La bellezza salverà il mondo, pamphlet sconcertante, specie di manuale che sconfigge l’opinionismo dominante, che raccoglie – come da sottotitolo – «Pensieri. Aforismi. Polemiche» di Dostoevskij, in libreria tra qualche giorno (De Piante, pagg. 164, euro 16, a cura di Claudia Sugliano). Il libro, edito in origine a Parigi nel 1975, è il frutto di un lavoro di scavo tra diari, taccuini, lettere e frammenti di Dostoevskij, compiuto da Dmitrij Griin (1908-75), studioso russo emigrato dall’Urss in Australia. Il volume sviscera, per temi il pensiero di Dostoevskij, ritenuto «scomodo» dalle autorità sovietiche. Il panslavismo, la necessità della missione russa, l’«innato disprezzo, divenuto odio» per l’Europa, la cristologia esasperata, hanno il dovere di urtare le nostre quiete convinzioni. Alcuni pensieri, semplicemente, ci disorientano per candore: «Non abbiamo tempo di guardare il cielo. Siamo sempre di fretta, di fretta; il cielo non passerà. Il cielo è qualcosa di comune, di semplice; ma vivere non è semplice». Introducendo il libro, Luca Doninelli glorifica le parole «spesso inaccettabili» di Dostoevskij, nelle quali «c’è una grandezza, una vastità, una libertà che la cultura dei nostri giorni, la bolla dentro cui viviamo tutti, non sa più ritrovare».
In uno dei saggi più belli raccolti in Fëdor Dostoevskij nostro fratello (Edizioni Ares, pagg. 140, euro 14), libro necessario per chi voglia sprofondare nel cosmo dostoevskjiano, Armando Torno racconta la sua visita tra «i resti della biblioteca del dittatore», Stalin. Fa un certo brivido, leggendo Torno, la copia chiosata dei Fratelli Karamazov appartenuta a Stalin»: il turpe Koba era interessato «alle frasi del monaco Zosima, soprattutto quando parla dei rapporti tra Chiesa e Stato».
Dostoevskij ci porta sempre nel lato oscuro dell’uomo: perché è lì, nel disgustoso, ciò che salva. Lev Tolstoj non riusciva a leggere i Karamazov perché vi scorgeva una verità indecente: una copia del romanzo di Dostoevskij stava sul suo comodino il giorno in cui scelse di fuggire da tutto, trovando la morte. Secondo Nikolaj Strachov, lacchè dei grandi scrittori, Dostoevskij «era cattivo, invidioso, vizioso», e probabilmente aveva «approfittato di una ragazzina» in un bagno pubblico. «È cosa terribile cadere nelle mani del Dio vivente», sussurra lo starec Zosima, leggendo i Vangeli; il suo ospite si sbraccia, «in quel libro trovi solo cose terrificanti», poi «scaraventò via il libro, si mise a tremare».
Allo stesso modo, tremando, in ginocchio, va letto Dostoevskij si è al cospetto del tremendo.