La Gazzetta dello Sport, 9 novembre 2021
Le mille panchine di Zdenek Zeman
«Mi ricordo che faceva tanto caldo...». È il 21 agosto del 1983, derby di Coppa Italia serie C, Licata-Agrigento Akragas: un ragazzo alto, biondo, magro, entra in campo, passo lento, sigaretta accesa tra le dita, guarda gli spalti e poi si dirige verso una panchina. Si chiama Zdenek Zeman, ha solo 36 anni, ed è il nuovo allenatore del Licata, alla sua prima partita da professionista dopo nove anni passati tra i dilettanti, dal Cinisi al Bacigalupo fino alla Primavera del Palermo.
In Sicilia sono già in tanti a conoscere questo giovane tecnico visionario, nato a Praga e nipote del famoso Vycpálek, con tante idee e così poche parole da essere soprannominato in seguito “u’ mutu”, il muto. Trentotto anni e 999 partite dopo, un signore di 74 anni, entra allo stadio Zaccheria di Foggia: i capelli si sono diradati e le rughe sul volto raccontano quanta vita c’è stata, in campo e fuori. Il passo è sempre lo stesso, così come il modulo proposto in campo: 4-3-3. Il coro che lo accompagna in panchina è quello familiare “Olé olé olé olé, Zeman, Zeman...”. Contro la Paganese finisce 3-0, gol spettacolo e sprazzi di Zemanlandia, vocabolo che la Treccani spiega così: «Sistema di gioco, fantasioso e votato all’attacco, ideato e adottato dall’allenatore di calcio boemo Zdenek Zeman».
ZeMille... Complimenti, mister. Se lo ricorda quel Licata-Akragas?
«Certamente, finì 1-1, meritavamo di vincere ma sbagliammo troppe occasioni...».
Che effetto le fa essere arrivato a questo traguardo in Italia?
«Mi fa capire che gli anni sono passati... Ma che qualcosa di buono devo averlo fatto per raggiungere un numero così alto di panchine».
Se dovesse scegliere la partita più bella o la sua squadra che ha giocato meglio?
«In un lontano Udinese-Foggia ci ritrovammo in nove uomini, ma in campo sembravamo in 12: movimenti perfetti, pareggiammo. Il mio Licata in Serie C ha forse interpretato al meglio le mie idee... Ma se do queste risposte mi prendete per matto. E allora ammetto che il Foggia dei miracoli nel primo anno in A e quello che nel secondo arrivò nono pur avendo cambiato dieci undicesimi della squadra, rappresentò una rivoluzione. Che l’8-2 della Lazio alla Fiorentina di Ranieri, Batistuta e Rui Costa e il 4-0 alla Juve di Lippi, Del Piero e Vialli, furono spettacolo puro. E che il 5-0 della mia Roma al Milan di Capello, non fu una brutta partita... Il mio Lecce ebbe il secondo attacco della A, con 66 gol uno in meno della Juve campione. E non dimentico tante partite del Pescara che venne in A, quando Verratti, Immobile e Insigne erano solo bambini e non ancora campioni d’Europa».
Una infinità di giocatori lanciati e valorizzati: carneadi fatti diventare calciatori e talenti fatti diventare campioni...
«Totti è stato il più grande di tutti, ma il suo talento non è stato merito mio. Signori quando lo volli non aveva mai segnato e divenne un bomber implacabile. Ma la soddisfazione maggiore è stata mandare in Nazionale da club piccoli, giocatori che non ci si erano mai avvicinati».
Lei non ha vinto scudetti e Coppe, eppure viene chiamato Maestro da tecnici enormi, come Sacchi e Guardiola, per la mentalità offensiva, le idee e il gioco d’attacco.
«Ringrazio chi lo dice, ho sempre pensato che per vincere bisognasse segnare un gol in più dell’avversario. E questo ho sempre chiesto alle mie squadre. Non è vero che non curavo la fase difensiva, ma l’obiettivo è sempre stato imporre il gioco, cercare il gol e soprattutto divertire il pubblico. Il mio calcio non è mai stato utopia: ho sempre inseguito anch’io il risultato, ma cercando di ottenerlo attraverso lo spettacolo e la bellezza, nel rispetto delle regole e di chi faceva sacrifici per venire allo stadio. Magari non sempre ci sono riuscito, ma non ho mai smesso, né smetterò mai di pensare che questa era è e sarà sempre la strada giusta».
Mille partite in campo e altrettante fuori. Nel 1998 era all’apice della carriera quando affermò che il calcio doveva uscire dalle farmacie e dagli uffici finanziari. Le sue denunce durissime, coraggiose, spesso affrontate in solitudine, le hanno regalato la stima degli sportivi, ma frenato la carriera. Le rifarebbe?
«Senza nessun dubbio. Non mi sono mai pentito di quel che ho detto e sostenuto. Il tempo mi ha dato ragione e il riconoscimento della gente ancora oggi è per me motivo di grande orgoglio. Ho sempre cercato di difendere i valori dello sport e del calcio. Vincere barando, non rispettando le regole o, peggio ancora, mettendo a rischio la salute degli atleti è una pratica criminale. Sono scoppiati scandali, ci sono stati processi sportivi e ordinari, condanne. È stato dimostrato che c’era tanto marcio. Non so quanto le mie parole siano servite a sollevare il coperchio sulla deriva che il calcio stava prendendo. Ma so che tanti all’interno del Sistema sapevano e speculavano perché su quelle derive si costruivano vittorie e fortune, si esaltavano o affossavano carriere. Io ho solo detto ciò che ritenevo giusto. Mi addolora solo sapere che a pagare il prezzo delle mie denunce siano state anche le mie squadre in campo».
Un bilancio 1000 partite dopo?
«Io mi sono divertito... Ringrazio i giocatori che mi hanno seguito e permesso di farmi conoscere e i presidenti che mi hanno dato un’opportunità, soprattutto quando era rischioso farlo. Spero di aver divertito chi è venuto a vedere le partite e di continuare a farlo a lungo. Perché non ho ancora finito...».