Linkiesta, 9 novembre 2021
L’aperiponce di Letta
Dio o chi per lui ci conservi il giornalismo d’inchiesta (senza kappa). Che non ha ancora svelato come andò a Ustica o se a Bologna sia possibile trovare un cassonetto la cui apertura elettronica funzioni, ma è lì – pronto allo screenshot e implacabile nell’ingrandimento del dettaglio – ogni qual voglia ci sia da, invece di lavorare, dirci cos’ha twittato Tizio.
Nel fine settimana, il tweet dello scandalo è di Enrico Letta. Servirà una breve premessa, per gente che il sabato lo trascorra a svagarsi invece che a cercare un’edicola (per trovare la quale non c’è giornalismo d’inchiesta che basti: non è difficile come trovare un cassonetto non rotto a Bologna, ma quasi).
Dunque sabato Il Fatto pubblica l’estratto conto di Renzi. Cioè, estratto conto: delle cifre con delle causali di fianco, uno schemino, una cosa tutta maiuscole pronta per essere messa sui social. I romanzieri e i saggisti si concentrano sugli ottantacinquemila euro che gli avrebbe dato Marsilio, e corrono a telefonare agli editori pretendendo anticipi più cospicui (se siete parenti d’un editore che sabato aveva il telefono sempre spento: ecco svelato il mistero, un altro grande risultato del soncinismo d’inchiesta).
Altri si concentrano sulla privacy, parola-cadavere quant’altre mai, che dovrebbe voler dire sia che il centro analisi non può mandare alla mia casella email i risultati dei miei esami per tutelare la mia riservatezza; sia che la banca per verificare al telefono che io sia io e dirmi tutti i dettagli del mio conto mi chiede una cosa che sa ricostruire un bambino di cinque anni avendo la mia data di nascita, cioè il codice fiscale; sia che un giornale che pubblica i fatti di qualcuno è «schiena dritta» se lo fa con chi ti sta antipatico e «giustizialismo» se infierisce su chi ti sta simpatico (le parole-cadavere tendono a moltiplicarsi).
Dio o chi per lui ci conservi il giornalismo d’inchiesta (sempre senza kappa), che a quel punto corre su Twitter a controllare i commenti dei tizi i cui bonifici non stanno sui giornali, vediamo se solidarizzano, vediamo se stigmatizzano, vediamo se sono in gita fuori porta.
E quindi trova – esso giornalismo d’inchiesta – la foto, twittata da Enrico Letta, di quello che a me – che verrei bocciata a ogni richiesta di visto per entrare nel territorio del giornalismo d’inchiesta – pare un orzo in tazza piccola. E penserei «ma guarda che vita da sfigato, l’orzo in tazza piccola, vuoi mettere i tortellini al ragù di Salvini, a sinistra i social non li sanno proprio fare», senonché il giornalismo d’inchiesta scopre per mio e vostro conto che il mio era pensiero debolissimo e che quello non è un orzo: è una macchia di Roschach.
Svela – il giornalismo d’inchiesta, e anche Google, su cui corro a cercare conferme – che quel bicchierino apparentemente di caffè con limone (come quello che ci davano a quindici anni per farci vomitare se avevamo bevuto troppa tequila; cioè, che davano a me: voi magari non avete avuto un’adolescenza alcolizzata), che quell’affare lì si chiama ponce alla livornese, e che oltre al caffè contiene rum.
Poiché la didascalia lettiana diceva «Seratona alla grande…», che tra accrescitivo e puntini ricordava il guidonicheliano «Sole, whisky, e sei in pole position», il giornalismo d’inchiesta ne prevedibilmente desume che il tweet costituisca pizzino decodificabile in: figata che hanno pubblicato i cazzi di Renzi, ’sto stronzo.
Ora, è qui necessario ricordare un principio fondativo del tempo sbandato che abitiamo. E quel principio è: nessun meccanismo è inedito. Se fai un tweet equivocabile, la responsabilità non è di chi lo equivoca: è tua. Se l’equivoco t’imbarazza invece di divertirti, la colpa non è di bestie, bestioline, elfi dei boschi, macchine del fango e macchine per l’espresso: è tua, che dopo quattordici anni di social ancora non t’aspetti l’inquisizione spagnola.
Dio o chi per lui, quando si riposa dopo averci conservato il giornalismo d’inchiesta, s’accanisce sui dettagli, e quindi sul bicchierino sponsorizzato del ponce (su quello fotografato da Letta, ma pure su quelli generici che si trovano su Google) ha fatto stampigliare «super sassolino». Se lo metti in una sceneggiatura t’accusano d’eccesso di didascalismo. Ha pure le stesse iniziali di «stai sereno», «super sassolino».
Ci sono due modi di affrontare gli esiti della ricetta «pasticcio d’andropausa con brama di cuoricini»: uno è imbarazzarsi per gli offesi e i retroscenisti, cancellare, scusarsi; l’altro è fingersi morto. Letta, lo si lodi almeno per questo, ha scelto il secondo, probabilmente sapendo che ormai era tardi. La lista dei rancori si era allungata e, in un crescendo narrativo ideale, finirebbe con Renzi che dirotta i suoi voti sul nome di Silvio Berlusconi, alle elezioni per il presidente della Repubblica.
Realizzando così lo zero al Totocalcio d’un segretario del Partito Democratico che fallisce in tutto, dal far approvare una leggina facile facile come la Zan all’eleggere un presidente della Repubblica che non sia il nemico pubblico numero uno.
Dio o chi per lui ci conservi i romanzieri, perché ce ne vorrà uno bravo per raccontare la storia d’Enrico, che – dagli torto – non ne voleva sapere di vivere a Roma, quel disastro di posto, fingendo di considerare Monica Cirinnà un baluardo del progressismo e Roberto Speranza uno statista; la storia d’Enrico che voleva tornare a Parigi, ma come gli era venuto in mente di mollare la sua comoda docenza nella città più bella del mondo per finire ad avere a che fare con dei punti di riferimento fortissimi dello scappatismo di casa, ma mannaggia al giorno in cui non aveva spento il telefono prima che lo chiamassero.
Potrebbe intitolarsi con un altro principio fondativo: Se tutte a te, sei tu. La storia d’Enrico che tutte a lui, d’Enrico che non sapeva come cavarsi d’impiccio finché l’illuminazione: era facile, bastavano un voto segreto e un ponce alla livornese, e la catastrofe sarebbe presto stata inarrestabile. Chissà se Carrère è libero.