Corriere della Sera, 9 novembre 2021
Le catastrofi innovatrici
Ogni crisi libera ad un tempo «forze di morte» e «forze di rigenerazione». Gli shock ambientali – il più famoso del secondo millennio fu quello che ebbe il suo culmine con la peste nera del Trecento – creano sfiducia, insicurezza, colpiscono le sensibilità oltre che le strutture economiche e sociali. Ma anche qualcosa di positivo. Persino la pandemia trecentesca, a cui è riconducibile la morte di un terzo dell’umanità dell’epoca, mise in moto quelle che abbiamo definito come «forze di rigenerazione». Si può forse dire che il trauma della peste nera abbia rivelato la debolezza delle istituzioni trecentesche? No, risponde Amedeo Feniello in uno straordinario libro, Demoni, venti e draghi. Come l’uomo ha imparato a vincere catastrofi e cataclismi, che sarà pubblicato il 18 novembre per i tipi Laterza. È del tutto evidente, sostiene Feniello, che il «grado dei problemi che dovevano essere affrontati, la natura delle relazioni politiche, economiche e sociali… in una certa misura, l’ideologia generale, oppure il flusso di informazioni», erano, per i governi di quell’epoca, molto, ma molto «meno controllabili» rispetto ad oggi. Ma fu proprio «la gamma dei problemi, tra cui anche quelli ambientali, che in notevole misura smascherò la scarsa attitudine all’adattamento di alcuni organismi troppo grossi per sopravvivere». Proprio allora si dimostrò evidente che entità come il Sacro Romano Impero (o gli Ulus mongoli) andavano considerati alla stregua di «enormi plantigradi che si muovevano con lentezza, poco inclini al cambiamento, anelastici, scarsamente duttili, debolmente organizzati». E si procedette per sostituirli con qualcosa di nuovo.
Prima di allora, all’incirca per due secoli e mezzo, forse tre, dalla seconda metà del secolo che precedette l’anno Mille alla fine del Duecento, l’umanità aveva vissuto una lunga stagione di crescita e di prosperità. Wolfgang Behringer nella Storia culturale del clima. Dall’era glaciale al riscaldamento globale (Bollati Boringhieri) ha ben identificato questa era che consentì di raddoppiare – e in qualche caso (il subcontinente indiano) addirittura triplicare – il numero di donne e uomini che popolavano il pianeta.
In seguito, scrive Feniello, «l’optimum climatico medievale» chiuse la sua «corsa». Si entrò nella stagione che Ruggiero Romano definì dell’Europa tra due crisi (Einaudi). Crisi «lunghe», la prima delle quali fu appunto quella del XIV secolo. Il pianeta, scrive Feniello, «diventava più freddo, le stagioni cambiavano verso, la pandemia bloccava la vita e mieteva vittime a milioni». Una «sequenza indecifrabile di shock ambientali ed epidemici».
Se cerchiamo un evento che simbolicamente faccia da spartiacque tra le due epoche, lo possiamo trovare nell’eruzione (1257) del vulcano Samalas, nell’isola di Lombok in Indonesia. Forse la più spaventosa dell’intero millennio. Ma ve ne furono altre di portata poco minore nel 1269, nel 1276, nel 1286: «Fenomeni che impattarono violentemente sull’ambiente e innescarono in modi imprevisti manifestazioni tanto di riscaldamento nelle acque del Pacifico, quanto di rilascio negli strati più alti dell’atmosfera di una pellicola sottilissima di solfati di aerosol che schermava i raggi solari, impedendo loro di entrare nell’atmosfera stessa». Seguirono violente siccità che portarono, nel giro di un secolo (1250-1350), alla fine della civiltà khmer, del regno Pagan di Burma, del Vietnam, dei regni indiani. In Cina le stagioni diventavano sempre più fredde, in un secolo si contarono ben ventotto gelate che resero impossibile la coltivazione del gelso, costretta a spostarsi di due gradi e mezzo di latitudine verso sud. In più, venti gelidi soffiavano dalle steppe mongole. Abbondarono le inondazioni. Tra un’inondazione e l’altra si aggiunse la calamità d’acqua come accadde in India nel 1287 (ed erano quattro secoli, dal 890, che non si vedeva una cosa del genere). Arrivarono i cicloni tropicali. La Groenlandia si ghiacciò e venne abbandonata.
Tale mutazione climatica, preceduta da una crescita demografica sproporzionata rispetto a risorse via via sempre più limitate, provocò una serie incessante di carestie. Il catalogo di queste carestie nell’Italia meridionale è impressionante. La prima crisi alimentare è del 1329. Il raccolto è ai minimi termini, la speculazione alle stelle e il re Roberto d’Angiò decide «l’interdizione assoluta» dell’esportazione di frumento dal Regno. Successivamente gli intervalli tra una carestia e l’altra si riducono, più o meno una ogni cinque anni: 1333, 1338, 1343, 1347. Quest’ultima, del 1347, è quella del collasso: dall’entroterra una massa di persone si riversa su Napoli. Ora è sul trono Giovanna I d’Angiò, regina di Sicilia e di Gerusalemme, che nel 1382 sarà uccisa nel castello di Muro Lucano dai sicari del cugino usurpatore Carlo. Giovanna si trova alle prese con problemi imprevedibili. Tanto più che il ciclo non si arresta; il culmine si raggiunge nell’agosto 1374 quando, sotto la spinta della fame e delle morti causate dalla peste, a Napoli scoppia la rivolta accompagnata, come d’ora in poi sarà consuetudine, dal saccheggio dei forni. Situazioni analoghe si verificano in Egitto, in Siria, nel Maghreb e nell’Impero bizantino, di cui inizia la dissoluzione.
Nel frattempo, come si è appena detto, era entrata in scena la peste. E la peste aveva portato con sé la catastrofe umanitaria. Il mondo che dovette fare i conti con quella grande pandemia fu costretto a liberarsi da incubi configuratisi, come nel titolo del libro di Feniello, in Demoni, venti e draghi. Fenomeni che erano parsi come i segnali di qualcosa che avrebbe messo a rischio la stessa sopravvivenza dell’umanità. Costringendola ad accelerare i processi che l’avrebbero indotta a cambiare radicalmente. Scoprì, quel mondo, i vantaggi di una rete di mercanti «con le sue solidarietà e i suoi appigli sociali». Individuò i pregi di un’entità statuale che garantiva un grado di «controllo fiscale, militare e giuridico inimmaginabile rispetto ad una signoria feudale».
Per ovviare alle minacce dell’ambiente, la risposta fu «l’organizzazione», la messa in campo di infrastrutture e tecnologie nuove. Come accadde in Cina. In Egitto. In Europa. Altre risposte non furono di natura economica o tecnologica, ma, piuttosto, «ideologica e religiosa» (la conversione all’Islam delle società dell’Oceano Indiano e dell’Indonesia). Risultato: cambiò radicalmente la storia dell’umanità.
Gli incubi si protrassero però ancora per decenni. Prendendo le sembianze di «cavalieri neri», talvolta di draghi. Il primo drago era comparso in Cina, alla fine del Duecento. Siamo nell’epoca della dinastia mongola degli Yuan, negli ultimi anni di vita dell’imperatore Khubilai. Il drago – tramandato da racconti, poi da leggende – si libra in aria, soffia e scatena un’inondazione che sommerge i campi ai margini del lago Tai, al delta dello Yangtze. Da allora gli avvistamenti di questi esseri demoniaci, scrive Feniello, «si moltiplicano a decine e decine, trascinando con sé cicloni e tempeste inarrestabili». Quelli cinesi si diraderanno a metà del Trecento, per ricomparire, tuttavia, in India e in molte altre parti del mondo. Persino qui da noi, in Italia.
Demoni e draghi si manifestano per il lungo periodo che va dal Trecento agli esordi del Cinquecento ad accompagnare alluvioni come quelle che colpiscono Firenze nel novembre 1333 o Roma, nel gennaio 1476. A Roma l’ambasciatore milanese Giovanni Marco manda al duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, un resoconto in cui si parla di serpenti vivi nel Tevere avvistati da «più di mille persone». E, tra i flutti, altri testimoni, sempre secondo Giovanni Marco, hanno visto «emergere anche un drago».
Di che si tratta? Quando un’onda d’urto inaspettata arriva e spezza le certezze ci si tuffa nell’irrazionale. Una forma di reazione agli shock, la «più immediata». Una delle tante modalità in mezzo all’infinita gamma di risposte che l’uomo ha escogitato nel corso della sua storia per ribattere all’inclemenza del tempo, alle catastrofi epidemiche, al freddo estremo, all’assenza di raccolti che sono stati divorati da eserciti di locuste.
Il drago è potenza che porta entropia e caos. Proprio per scongiurare entropia e caos, «gli uomini si sono battuti, adattati, hanno inventato nuove pratiche sociali e politiche, finanziarie, economiche, culturali, tecniche, scientifiche, spirituali». Generate «con un mix di energia e speranza verso il domani ma accompagnate spesso da un significativo senso di vulnerabilità». Con «percorsi di ripartenza che furono tutt’altro che lineari». I gruppi umani assediati dal disordine, scrive Feniello, «camminarono tante volte a tentoni, come nella parabola dei ciechi, lasciando dietro di sé scie di cadaveri e di macerie, non solo materiali, ma anche metaforiche». Niente o quasi fu intenzionale.
L’esperienza, certo, ebbe una parte non piccola. Ma giocarono anche «altri fattori imprevisti, reazioni improvvisate, scelte estemporanee». Anche, ovviamente, «scatti organizzativi che espressero spazi di complessità più ampi, adeguati alle necessità congeniali ad esse». Unica «grande molla per superare gli stimoli negativi, le contrarietà, le tensioni sociali, economiche, politiche, militari».
Ha scritto Edgar Morin – in Per una teoria della crisi (Armando editore) – che ogni grave momento di difficoltà per il genere umano è come «un grimaldello capace di scardinare ciò che è nascosto, virtuale all’interno della società (o dell’individuo): gli antagonismi fondamentali, le rotture sismiche sotterranee, il cammino occulto delle nuove realtà». E di gettare un fascio di luce «sulla parte sommersa dell’organizzazione sociale, sulle sue capacità di sopravvivenza e di trasformazione». Fu proprio questa la caratteristica del «grande mutamento» intervenuto tra Trecento e Quattrocento.
Dal magma, scrive Feniello, «arrivarono delle risposte, all’inizio innovative e sperimentali, che si trasformarono in entità complesse e amalgamate in un quadro di crescente complessità»: dai banchi duecenteschi alle holding, dai Comuni alle Signorie, dai Regni agli Stati nazionali, «dal lavoro al surplus di specializzazione». La cultura si pose sulla stessa scia: tutto cambiò e mutarono anche i suoi paradigmi di riferimento. Con un fastidio che si cominciò a percepire e che man mano andò accrescendosi verso tutto ciò che apparteneva al passato.
Ebbe inizio «quasi come uno scontro generazionale, a partire dalla corte di Napoli di re Roberto d’Angiò, nella quale transitava il meglio della cultura (da Giotto, a Petrarca, al giovane Boccaccio), con il rifiuto della propria epoca, come tempo insoddisfacente da un punto di vista culturale e ideologico». Con il bisogno di procedere «a un salto cronologico, per recuperare un legame con un altrove, il passato mitico e mitizzato dell’età classica, della perfetta civiltà». Una «alleanza tra le epoche», tenuta viva, secondo una nuova leva di intellettuali, da una «comunanza di spirito e di identità». Quello che comunemente fu definito «ritorno alla classicità». Tra quel lontano passato e il presente, quella che fu definita «età di mezzo», un «vuoto spaventoso».
Quasi cinquant’anni fa, Giorgio Falco ne parlò in La polemica sul Medioevo (Guida). Spiegò come e perché il confronto tra il Quattrocento e il cosiddetto Medioevo fu visto per secoli come una lotta tra la luce e le tenebre. Sono stati poi necessari decenni e decenni per ribaltare questa immagine e far capire quanto quegli otto, dieci secoli precedenti e successivi all’anno mille siano stati ricchi e fecondi. Adesso Feniello spiega in modo circostanziato come fu proprio l’apocalittico Trecento che diede, per così dire, la spinta al grande balzo verso la modernità.