Corriere della Sera, 9 novembre 2021
Intervista a Riccardo Piatti
«Aspetti, prima di cominciare una cosa importante. Ai ragazzi che vogliono imitare il dritto di Jannik, va detto che devono guardare solo le mani e dove va la testa della racchetta, quella è l’unica cosa da fare...». Con l’uomo che in questo momento sta mimando l’esecuzione di un colpo nella hall di un hotel di Parigi, non è mai un discorso interrotto. Ogni volta si ricomincia come se nulla fosse. Da quella attenzione al dettaglio, da quel pensiero unico che gira sempre e soltanto intorno al tennis.
Lo chiamano «Il meccanico dei campioni». Quasi ogni settimana, davanti alla sua accademia nascosta nell’entroterra di Bordighera si ferma un’auto di lusso. Ne scendono, a turno, Novak Djokovic, Maria Sharapova, e tanti altri ancora. «Riccardo, non mi funziona questo colpo...». E lui si mette lì, con il cesto, a far vedere cosa non va, ad aggiustare. Anche a distanza. Non è un segreto che Carlos Moya, coach di Nadal, gli abbia mandato qualche volta i video dei loro allenamenti. «Riccardo, Rafa sta rispondendo da schifo...».
Riccardo Piatti non è solo uno dei maestri di tennis più stimati di tutto il mondo, nonché la persona che sta aiutando a crescere la grande speranza del tennis italiano, al secolo Jannik Sinner. La sua storia, che ha appena raccontato in un libro bello e intenso scritto con Federico Ferrero, comincia molto prima dell’incontro con il ragazzo altoatesino. Da un circolo di tennis a Villa d’Este, quando il figlio di un industriale del tessile della provincia di Como, capisce che può applicare il rischio di impresa allo sport che ama. E sul finire degli anni Ottanta si inventa una professione sconosciuta in Italia, il coach privato. «I miei genitori vengono da una terra di lavoro, che rifugge dagli aiuti statali. Mi hanno sempre insegnato a contare su me stesso. A casa nostra, statalismo era una brutta parola».
Nascono così i Piatti-boys?
«Ero un tecnico federale, che seguiva un gruppo di ragazzi, tra i quali Renzo Furlan, Cristiano Caratti, Christian Brandi. I risultati non arrivavano, ma io credevo in loro. A un incontro con i dirigenti della Federazione, mi venne detto che dovevo lasciarli andare, non sarebbero mai diventati professionisti e che presto avrei lavorato con altri giocatori».
Come reagì?
«Con le parole di mio padre. Se sei a capo di un progetto e quel progetto fallisce, la colpa non è di chi ci lavora, ma tua. Così mi alzai e me ne andai. Quel giorno decisi di mettermi in proprio, con i miei ragazzi, trovando una casa tutta nostra a Moncalieri, diventando una specie di eretico. Hanno avuto quasi tutti una bella carriera, e ne sono orgoglioso».
Era d’accordo con Nanni Moretti, che in «Aprile» se la prendeva con «le spallucce vittimiste» dei tennisti italiani che perdono sempre per il vento, la sfortuna e mai per colpa loro?
«Quando uscì quel film, uno dei miei ragazzi, Christian Brandi, gli scrisse una lettera scherzosa. Se è vero quel che sostiene lei, diceva, perché il mio allenatore mi sveglia all’alba e mi mette in sella a una Graziella scassata facendomi fare avanti e indietro per ore nel freddo e nella nebbia di Moncalieri? Era un modo per fargli capire che non tutti gli italiani erano così».
Si offende quando le dicono che lei ha solo il tennis in testa?
«Negli ultimi quarant’anni, e ne ho ormai 63, non c’è stato un giorno in cui non abbia pensato al tennis. Sono un uomo dal mono-pensiero. Quando vado al ristorante con mia moglie Gaia dopo una partita, scorro il menu e penso a quel colpo che doveva essere eseguito meglio, accompagno mio figlio Rocco a scuola e intanto penso a come impostare gli allenamenti della settimana in accademia. Sono fatto così, ho imparato ad accettarmi. E so che per chi mi vuole bene non è facile starmi vicino».
Le fa paura il mondo fuori?
«Io sto bene così. Non mi prenda per pazzo, capisco che ci sono tanti aspetti della vita che mi sfuggono. Magari sbagliando, davanti ai dolori, alle cose che succedono lungo il nostro cammino, mi sono sempre rifugiato nel tennis».
Come è cominciata la sua carriera da coach?
«Ero un decente giocatore quando il mio maestro al circolo di Villa d’Este si ruppe il femore e mi fu chiesto di sostituirlo. Intanto, i miei genitori mi avevano detto: o studi o lavori. Io ho scelto di conoscere il tennis».
Perché non usa il verbo studiare?
«Giocavo, e avevo già letto tutti i manuali di tecnica che bisogna leggere. Ma non sapevo spiegare. Farsi capire, trasmettere con passione la propria conoscenza, quando insegni qualunque materia, è sempre la cosa più importante».
La infastidisce il fatto che «per colpa» di Sinner e di Matteo Berrettini oggi abbiamo sessanta milioni di italiani esperti di tennis?
«Perché dovrebbe? In questi lunghi anni di solitudine, diciamo così, mi sono sempre chiesto perché fossimo così bravi nel calcio, nel volley, in qualunque sport che non fosse il tennis, e dove stavamo sbagliando».
La risposta?
«Un approccio errato. Poca voglia di rischiare aprendosi al mondo, la nostra eterna propensione a cullarci negli aiuti provenienti dallo Stato, ovvero la Federazione, senza considerare l’impresa privata. Lo vede che il tennis è una parte per il tutto? Adesso finalmente è cambiata la rotta. E in qualche modo, io mi ritengo un pioniere di questa nuova frontiera».
Le piace l’Italia che sta cercando di lasciarsi alle spalle la pandemia?
«In questo momento, mi sento al sicuro grazie a Draghi. E non succedeva da tempo. Come forse ha capito, non ho un pensiero politico forte. Sono un moderato, convinto che sia sempre meglio farsi guidare da una persona seria e competente. Una volta tanto, l’abbiamo trovata».
Quando capì che Jannik Sinner poteva diventare molto forte?
«La prima estate con lui, quando aveva 13 anni, lo portai al mio consueto stage all’Elba. Una mattina, va a tuffarsi dagli scogli assieme ad altri ragazzi. Lui, bambino di montagna, che nuotava a malapena, al primo tentativo fece subito un salto mortale. Quando riemerse, tutti gli chiesero come ci era riuscito. Rispose che quando era in aria aveva pensato di fare due capriole consecutive, così una almeno l’avrebbe fatta per forza. Aveva già la testa del vero sportivo».
Tra gli altri, lei ha allenato un certo Djokovic.
«Era la primavera del 2005. Mi stavo godendo i successi di Ivan Ljubicic, con me fin da piccolo. Volevo aggiungere alla mia squadra qualche giovane da formare. “C’è questo ragazzino...” mi disse un amico. Numero 250 del mondo. Lo avevo visto una sola volta. In Australia, dove aveva preso una stesa memorabile da Marat Safin, 6-0 6-2, 6-1. Questo per dire che non si deve mai giudicare in fretta. Siamo stati insieme per un anno e mezzo. Mi resi conto che strizzava sempre gli occhi prima di colpire la palla, e consigliai ai familiari di mandarlo dall’oculista. Risultato: aveva due diottrie in meno. Poi ci separammo, non potevo seguirlo a tempo pieno».
Non rimpiange il fatto che oggi potrebbe essere un coach che ha vinto 20 Slam?
«Assolutamente no. Suo padre esigeva da me dedizione assoluta. Ma io sono fedele ai miei ragazzi. E non potevo sdoppiarmi. In più c’era un problema. Ljubicic è croato di origine bosniaca, Novak è serbo. La guerra nei Balcani era finita da poco, e in quei due Paesi certe cose pesano ancora molto. Fu giusto lasciarsi andare. Vincere uno Slam rimane un sogno, che oggi condivido con Jannik. La ricerca del Sacro Graal continua».
Anche lei sogna giocatori orfani?
«Cerco genitori che condividano il mio pensiero. I bambini quando cadono, o quando perdono, devono poterlo fare. Non tutti possono diventare campioni. Viviamo in un’epoca in cui sembra che i nostri figli non possano più provare dolore, siamo ossessionati dall’idea di tenerli lontani da ogni patema d’animo. Ma proteggere, non significa questo. I genitori vanno aiutati a cercare un percorso di crescita per i loro ragazzi, e a sostenerli. Nient’altro».
Esiste un metodo per farlo?
«L’ascolto, il tentativo di capire le loro ansie, le paure e le ambizioni. A ogni livello. Nessuno di noi è uguale all’altro. Milos Raonic è figlio di due ingegneri, pensi che insisteva sempre per portarmi nei musei con loro. Io confesso che intanto pensavo ai suoi colpi da migliorare... Richard Gasquet è figlio di un maestro di tennis, Jannik di due persone che gestiscono una baita in montagna. Io mi sento un educatore. Cerco di conoscere i genitori che ho di fronte per capire come arrivare a loro, nell’interesse del ragazzo».
Nel suo mondo i giocatori sono tutti uguali?
«Sono felice allo stesso modo se alleno Jannik o un bambino. Quando Maria Sharapova mi chiamò da Londra per chiedermi di lavorare con lei le dissi che sarebbe dovuta venire all’Elba, dove facevo il campo estivo. Arrivò in elicottero. Avevo prenotato l’unico campo disponibile a quell’ora, come in qualunque circolo. Era un terreno in cemento, spelacchiato, con qualche buco. Temevo la sua reazione. Invece si guardò intorno, e disse che se avesse giocato bene qui, lo avrebbe fatto in qualunque posto del mondo. E cominciammo. Così ragionano i campioni».
Cosa succederà dopo il ritiro della Santissima Trinità Federer-Nadal-Djokovic?
«Ci saranno altri campioni. Basta salvaguardare lo spirito del gioco, senza assurdi cambiamenti di regole. Abbiamo già vissuto momenti come questi, quando finirono McEnroe e Borg, quando finì Sampras. Non fasciamoci la testa. Il tennis è più forte di ogni singolo giocatore».
Anche del padel?
«Si tratta di un gioco derivativo, che va molto di moda. Passerà».
Cos’è per lei il tennis?
«Tutto. L’unità di misura del mio mondo, lo strumento attraverso il quale ho imparato a capire chi sono, con i miei limiti. Mi sento fortunato. Tutti dovrebbero avere una passione capace di riempire una vita intera».