Corriere della Sera, 9 novembre 2021
Transatlantico riaperto (e vuoto)
Tick tick tick: se i tuoi passi rimbombano, vuol dire che sei solo. Proprio solo. Non è un effetto ottico.
Il Transatlantico di Montecitorio riaperto dopo 17 mesi di Covid e di morte: eccolo magnifico ai limiti del magico, dentro una luce bianca che filtra dai finestroni, enorme, e deserto.
Da dietro una colonna del grande atrio liberty floreale, progettato alla fine dell’Ottocento dall’architetto palermitano Ernesto Basile, spunta fuori un addetto alle pulizie; spinge una grossa lucidatrice: «Guardi questo pavimento come luccica» (il conturbante pensiero di un istante: prendere la rincorsa e provare una scivolata come quella che Paolo Sorrentino fece fare nel film «Il Divo» a Cirino Pomicino/Carlo Buccirosso; mai avvenuta nella realtà, ma perfetta per spiegare un desiderio onirico di potere assoluto).
Cronaca: va bene che è lunedì, e sappiamo che i deputati e le deputate qui di solito vengono dal mercoledì mattina al primo pomeriggio del giovedì, tranne che in quelle giornate in cui pensano di rischiare la poltrona. Però, davvero, vuoto pneumatico: che stupida ingenuità pensare di trovare qualcuno spinto non dico da emozione martellante, ma almeno da misera curiosità.
L’uomo della lucidatrice: «Dottò, lo sa che hanno riaperto anche la buvette?».
Attraversare allora questo Salone dei passi perduti (soprannome ricco di suggestioni).
Tick tick tick.
Con lo sguardo che scorre sui dispenser di gel disinfettante e sui divanetti di legno pregiato giustamente sfregiati dai cartelli No-Covid. Con il ricordo – tramandato da cronista a cronista – di memorabili e altissime battaglie politiche, di intrighi sublimi e volgari intrallazzi, di accordi bizantini e risate oscene, di sospetti crudeli e divertenti perfidie, solenni scenate, urla e sospiri.
Fantasmi in dissolvenza.
(Ecco Ciriaco De Mita parlare fitto con Bettino Craxi, burbero, imponente, spesso una cravatta rossa, talvolta un garofano all’occhiello della giacca. Gian Carlo Pajetta per conto suo, facile all’ira, ma di battuta veloce. Enrico Berlinguer, meraviglioso. Claudio Martelli giovane, bello, rampante, brillante. Antonio Gava incedeva con l’aria di sentirsi davvero il viceré di Napoli. Arnaldo Forlani, lo sguardo mite e una mente lucida e feroce, che a Giampaolo Pansa ispirò il soprannome di Coniglio Mannaro. Pinuccio Tatarella, visionario e affascinante, che immaginava una destra moderna. Onorevoli anche piuttosto colti, nel tempo: Giuseppe Saragat, leader dei socialdemocratici, poi presidente della Repubblica, arrivava sempre con il Times e il Figaro sotto il braccio; Leonardo Sciascia, qui per il Partito radicale, sobrio, asciutto. L’autorevole frezza bianca di Aldo Moro, la sua grisaglia grigia, una voce di velluto e come distante. I discorsi torrenziali del socialista Riccardo Lombardi. Però anche Pietro Nenni: con un eloquio che descrivono impetuoso. L’austera Nilde Iotti, con i suoi colletti in pizzo, e Palmiro Togliatti, il capo del Pci: aveva davvero uno sguardo severo – dicono – ma anche un’oratoria elegante. Un certo parlare forbito è stato, a lungo, diffuso: «qualsivoglia», «altresì», «pertanto». Poi un pomeriggio il comandante della Lega Nord, Umberto Bossi – sempre in camicia verde, maniere ruvide e, soprattutto, un lessico assai sgangherato – fu ripreso dal presidente di turno, Alfredo Biondi: «Onorevole, largheggi pure quanto vuole con gli aggettivi ma, per cortesia, sui congiuntivi, si controlli!». Marco Pannella, sicuro, spavaldo, geniale, entrò tenendo per mano Ilona Staller, in arte Cicciolina: stretta in un abito di paillettes che fece venire il torcicollo a molti. E segnò un cambio dei costumi. Il padovano Pietro Folena si esibì con pantaloni color vinaccia e con un paio di scarpe da tennis. Emma Bonino osò gli zoccoli. Silvio Berlusconi – potenza pura in qualsiasi gesto, la certezza di rovesciare ogni liturgia politica – osò invece raccontare barzellette spinte assai: e allora subito tutti a ridere, certe deputate barcollanti su tacco 16 che fingevano di arrossire, i deputati forzisti terrorizzati invece da Denis Verdini che, in occasione dei voti più delicati, non li mandava neppure a fare la pipì. Massimo D’Alema usciva dall’emiciclo con passo lento e teatrale).
Dentro la buvette, le notizie sono due: il caffè è misteriosamente buono; le postazioni in plexiglass dentro cui accucciarsi per berlo sono 21. Non che nell’affollamento di qualche tempo fa accadessero fatti decisivi. Ben prima dell’arrivo del coronavirus, questo leggendario bar sembrava essersi trasformato in una fermata della metropolitana. Gente come capitata per caso. Discorsi da vagone: chissà se riesco ad andare in pensione, chissà quando, chissà quanto prenderò. Centinaia di deputati che i capi dei partiti tengono all’oscuro di tutto. La politica si faceva già fuori di qui. I lockdown hanno ratificato la regola.
Tick tick tick.
C’è ormai qualcosa di strutturale in questo Transatlantico deserto (ad un certo punto compare la deputata di FI Lorena Milanato: ma dev’essere un’allucinazione). Le notizie delle ultime settimane spiegano molto: Enrico Letta e Giuseppe Conte vanno a pranzo in un ristorante del centro; Luigi Di Maio e Giancarlo Giorgetti ragionano di Quirinale e di Rai in una pizzeria su via Flaminia; Matteo Salvini e Giorgia Meloni accettano l’invito del Cavaliere, nella sua villa sull’Appia Antica; un pezzo di centrosinistra si precipita al compleanno di Goffredo Bettini: strepitosa dimostrazione di autorevolezza, glamour assoluto, la bicchierata organizzata in periferia nel villino del suo storico autista, polpette al sugo anche per Gianni Letta e Carlo Fuortes.
Così succede che il Transatlantico riapra: e che tu senta il rumore dei tuoi tacchi.
Tick tick tick.
Telefonare al giornale.
Ed essere sinceri: no, ragazzi, oggi qui a Montecitorio non c’è pezzo.