Corriere della Sera, 9 novembre 2021
Riecco Gianni Letta
Parlargli di Quirinale è come mostrare un simbolo diabolico a un esorcista. Gianni Letta non dice: «vade retro», ma la sua ritrosia proverbiale diventa, se possibile, ancora più vistosa. I maligni sostengono che dipenda dal timore di irritare Silvio Berlusconi, da trent’anni suo «consigliato» e adesso, a sorpresa, indicato tra i candidati del centrodestra a succedere a Sergio Mattarella: timore cresciuto anche dopo la sua partecipazione al compleanno di Goffredo Bettini, l’esponente del Pd romano teorico dell’asse col Movimento Cinque Stelle e regista di trame di potere vere o presunte. Spiegazione un po’ riduttiva. E non solo perché quando gli è stato chiesto della sua presenza, Letta ha risposto che «Bettini lo conosco da più di trent’anni, da quando dirigevo il Tempo . È un amico».
Il problema è che l’ex braccio destro di Berlusconi a Palazzo Chigi, non ci pensa proprio. Ma il fatto di conoscere tutti ed essere amico di quasi tutti lo espone ai sospetti. Giulio Andreotti, che è sempre stato per lui una sorta di modello inarrivabile, al punto da farlo considerare l’unico andreottiano organicamente anche berlusconiano, con la sua perfida ironia una volta lo ha raffigurato così: «Gianni Letta svolge un ruolo che direi geodiplomatico. Ha aiutato l’ambrosiano Berlusconi a comprendere il rito romano. Letta conosce mezzo mondo, come si desume anche dalla sua quotidiana presenza condolente nei necrologi dei giornali». Perfidie a parte, il suo trasversalismo soprattutto capitolino è leggendario. E questo potrebbe renderlo un possibile candidato «di risulta» al Quirinale.
Pur non essendo mai stato parlamentare. E pur avendo come connotato soprattutto quello di conoscere la macchina dello Stato come pochi altri; di muoversi tra apparati, ministeri, Vaticano ed editoria con una familiarità sorprendente. Ma sempre dietro le quinte. Fu lui, nel remoto 1994, a portare un Berlusconi fresco di Palazzo Chigi al Policlinico Gemelli di Roma per salutare Giovanni Paolo II, convalescente dopo un’operazione. Letta rispunta quando si tratta di abbozzare una commissione bilaterale tra il Cavaliere e l’ex comunista Massimo D’Alema, nel giugno del 1997, con una cena nella sua casa a Monte Mario, a Roma. E di nuovo, riemerge al convivio di pochi giorni fa alla periferia della capitale, che colpisce non solo per le presenze ma per le assenze: una sorta di lobby anti-Mario Draghi, con dentro Pd e grillini.
Senza il premier, naturalmente, ma anche senza Enrico Letta, suo nipote, segretario del partito. Con civetteria, nel 2014, quando il giovane Letta era a Palazzo Chigi e lui a una delle innumerevoli soirées romane alla Galleria Borghese accanto alla moglie Maddalena, riservata quanto lui, sorrise: «Scipione Borghese ebbe il titolo di Cardinal Nepote, che era di fatto il Primo ministro dello Stato Pontificio». E subito dopo: «E invece voi stasera dovete accontentarvi di uno zio». Già, si definì «lo zio di Letta», cedendo il passo della visibilità e del potere all’allora premier. Molto lettiano. Ma la modestia non deve ingannare. La principale caratteristica dello «zio» è di essere un uomo che ama l’ombra. Un presenzialista defilato, si potrebbe dire con un ossimoro. E terrorizzato dalla cultura della rissa e dei contrasti.
«Se lo conosco», conferma uno dei tanti ex premier che lo hanno incrociato, «non credo che abbia mai pensato al Quirinale. Non ci pensa e non lo vuole. La zampa davanti a Berlusconi non la metterà mai». E comunque, se anche ci pensasse non lo confesserebbe neanche a se stesso. Per questo chi azzarda l’ipotesi di una sua candidatura, lo dice come un’ipotesi remota, sideralmente distante dal novero delle possibilità. È vero, c’è chi sussurra: «E poi, alle strette, ci sarebbe anche Letta...», creando scrollate di spalle e qualche sguardo preoccupato di chi si sente davvero candidato; e sono una pletora. «Credo che Matteo Salvini e Giorgia Meloni si suiciderebbero di fronte a un’ipotesi del genere», sostiene uno di loro, che lo conosce bene. «Letta è un moderatissimo. Per mettere ministri moderati nel governo Draghi ha anche rischiato di incrinare il rapporto storico con Berlusconi».
La vulgata smentisce una sua appartenenza alla lobby anti-Draghi, del quale è un grande estimatore. Sarebbe singolare il contrario. Per cultura, formazione, esperienza, Letta è agli antipodi di chiunque urli, litighi, e coltivi l’idea della politica come rissa. Definirlo «anti» qualcosa non è facile: non perché non lo sia ma perché tende a non farlo vedere, fino a che può. Il suo è il profilo tipico del consigliere dei potenti. Declina il potere come capacità di essere un suggeritore, mai un protagonista. Sotto la luce dei riflettori, la sua magia si scioglierebbe. Per questo è riuscito nei decenni a mediare tra realtà in apparenza inconciliabili. È stato capace perfino di teorizzare la sua idea di armonia con paragoni calcistici inaccettabili da qualunque vero tifoso.
«Mai un romanista diventerà laziale», ha scolpito. «Eppure nessuno ha mai gridato all’inciucio, neppure il peggior tifoso, se e quando la sua squadra o la sua società contribuisce, insieme alle altre, a definire le regole del gioco...». Quando si chiede in giro per chi faccia il tifo Gianni Letta, i «non so» sono prevalenti. Le «curve» del potere da stadio, sicuramente, disapprovano dal più profondo del cuore.