Come ha deciso di scrivere questo libro?
«Dopo anni passati a curare le scritture e le memorie altrui, tra nonno, padre, madre, un’eredità straordinaria ma anche opprimente, avevo bisogno anche di fare i conti con me stessa. L’isolamento imposto dal Covid ha favorito il processo».
Insieme a una coincidenza sorprendente.
«Una libreria antiquaria che raccoglie a Porta Portese gli scarti dei traslochi pubblicò in rete i quaderni di “una bambina italiana in Cina negli anni ’50”. Erano i miei!
Forse uno scatolone di mia madre... Scritture molto controllate — mio padre e mio nonno correggevano e davano il voto — ma da cui trapela una verità».
Il suo stile asciutto e nitido mostra la Cina attraverso uno sguardo curioso e non giudicante.
«La stringatezza credo derivi dal multilinguismo: praticare più lingue, in situazioni diverse, senza mai possederle fino in fondo. Era in qualche modo anche un autocontrollo. Quando discuto con dei cinesi, anche da posizioni critiche, riesco però a entrare nel loro punto di vista, grazie alle griglie di lettura della realtà formatesi nell’infanzia. Come se nella mia anima ci fosse una parte cinese. C’è quasi una schizofrenia, in me».
Come nell’attore italo-cinese Shi Yangshi, l’“Arle-Chino traduttore/traditore di due padroni”.
«Ci siamo amati moltissimo! Nel mio diario ha ritrovato un’esperienza opposta ma complementare alla sua; è un malessere ma anche un vantaggio, osservare dall’esterno diverse identità possibili, di volta in volta scegli, ma ne sei anche critica».
Traccia parallelismi inattesi tra la storia italiana e cinese, per affrontare il potere di seduzione dell’ideologia e la difficoltà di emanciparsene, a partire dalla sua stagione maoista.
«Dopo la laurea, in risposta all’appello di Don Milani, sono andata a insegnare nelle campagne del frusinate. Se fossi stata in Cina sarei stata tra le guardie rosse della Rivoluzione culturale, negli anni ’50 ho ricevuto la stessa educazione: una generazione preparata ideologicamente a prendere il testimone della Rivoluzione (come in Italia ci si preparava a diventare buoni successori della Resistenza) a cui Mao ha dato un forte riconoscimento: il mondo è vostro, scatenatevi! Ribellarsi è giusto! Nel ’68, il Libretto rosso ha diffuso al livello globale questo messaggio antiautoritario. Il conflitto generazionale fu fortissimo, i miei genitori erano per me dei “revisionisti”. La resa dei conti fu dura anche per noi, ma molto meno drammatica».
Ad aprirle gli occhi fu la “letteratura delle ferite e delle cicatrici” prodotta dalle guardie rosse disperse in campagna negli anni ’80. Rende omaggio alla figura luminosa della scrittrice Yang Jian, a cui rimanda il titolo.
«Una cinese con un’educazione cosmopolita. È stato l’incontro con una scrittura unica. Tutto è trattato con penna leggera, quasi fantasiosa, da Alice in una realtà assurda: punita per la traduzione del Don Chisciotte , considerato materiale nero, feudale, è capace di indulgenza verso quei giovanissimi, agnelli che hanno dovuto mettersi la pelle del lupo».
Dice che le è stata di conforto nell’impresa di occuparsi delle memorie familiari.
«Mi misuravo con lei mentre curavo i diari di mio padre, morto nell’82, ripresi di recente nel bel libro di Davide Orecchio Storia aperta . Ci scontravamo, a volte non ci parlavamo per settimane, e lui ne scriveva. In una poesia, vorrebbe che io potessi indicargli una strada che lui si rende conto di avere smarrita rispetto alle aspettative della guerra partigiana. Manteneva un’apertura che da buon comunista stalinista non rivelava mai. Nello stesso tempo aveva paura che sarei andata a sbattere, che sarei rimasta delusa. Mi descrive attonita, alla caduta della “banda dei quattro”».
Il lavoro di traduzione può aggiungere “una patina dorata” all’originale, dice Yang Jian.
«Il problema della resa in un’altra lingua mi ha accompagnato per tutta la vita. Nel tradurre dal cinese devi fare un’operazione di avvicinamento e resa nella tua cultura perché, a differenza di inglese, francese, spagnolo e olandese, è una forma diversa di pensiero — che da qualche parte sta in questo mio cervello multilingue: ho sempre l’impressione di avere delle connessioni che si riattivano».
Ha lavorato molti anni come funzionaria e traduttrice a Bruxelles.
«Ricordo l’esperienza nelle istituzioni comunitarie negli anni ’80 e ’90 con nostalgia e felicità. L’arrivo degli spagnoli, dei portoghesi, dei greci. Nell’epoca di Delors, dopo la creazione del mercato unico, si aveva l’impressione di essere pionieri che stavano armonizzando le legislazioni d’Europa su valori avanzati, innovativi, sul fronte ambientale, della protezione dei consumatori e della salute. C’era una carica positiva. Il punto di crisi è arrivato quando, invece di approfondire, si è allargata l’Unione».
Consigli di lettura per avvicinare la Cina “dall’interno”, oltre gli stereotipi?
«Di Su Tong, Vite di donne e L’epoca dei tatuaggi , storie di ragazzini nell’epoca della rivoluzione culturale, formidabili. Del premio Nobel Mo Yan non so quale consigliare! Io ho tradotto Il paese dell’alcol , ma c’è il drammaticissimo Le rane , sulla politica del figlio unico, sono libri che possono respingerti, ma ti immergono in una realtà. E poi ritrovare Yang Jian, Il tè dell’oblio ».