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 2021  novembre 08 Lunedì calendario

Intervista a Maccio Capatonda

A differenza del suo socio Herbert che «non regge l’alcol» (quando Maccio gli porge in mano una preziosa bottiglia di cognac, lui la fa cadere giustificandosi: «Te l’avevo detto che non reggo l’alcol...»), Capatonda l’alcol lo regge benissimo: tanto che, ospite in tv di Daria Bignardi, si è scolato una pinta di birra, per poi replicare nel programma di Alessandro Cattelan con vari shortini offerti e tracannati dopo aver vinto un incontro a «dito di ferro».
Lo sbevazzatore in questione è, appunto, Maccio Capatonda (all’anagrafe, Marcello Macchia), il jolly della comicità demenziale e surreale che da anni sbanca la rete con milioni di visualizzazioni.
L’astemio con le mani di ricotta è invece Herbert Ballerina (al secolo, Luigi Luciano), principale complice del boss nella banda di fuorilegge (e fuoriditesta) che ha germinato il «fenomeno Capatonda». Trattasi di una filosofia di vita che la «dottrina Maccio» sintetizza nella fuga dalla realtà attraverso la follia di personaggi mostruosi. E quando ci viene il sospetto che quei mostri – almeno in parte – siamo proprio noi, ormai è troppo tardi: il meccanismo della risata è già scattato, senza però farti capire se stai ridendo di te stesso o di un altro; il segreto del successo di Capatonda è saltellare sul filo elastico di questa ambiguità e lungo il piano inclinato delle nostre insicurezze. Senza cadere, o meglio, cadendo in continuazione, ma con una tale velocità da illuderci di rimanere sempre in piedi. L’ironia da laboratorio creativo di Maccio è perfetta per ritmi sincopati e i gusti liquidi dei navigatori social, specialmente i più giovani, che (e qui ci riferiamo al fronte maschile) a Maccio invidiano soprattutto il flirt avuto con Elisabetta Canalis. Il popolo della metropoli virtuale di Capa-Town è socialmente trasversale, ma con un’età da Generazione Millennial: quella che i libri non li bazzica neppure di striscio, fedele al precetto di Padre Maronno («E se poi te ne penti?»). L’unica eccezione l’hanno fatta per Libro (Mondadori Electa), l’autobiografia appena uscita di Maccio, ma solo perché Libro sta a un volume vecchio stampo come una concept car sta alla Trabant 601. In entrambi i casi ci troviamo dinanzi a un trash tanto trash da trasformarsi in puro genio visionario. Risultato: una, nessuna, centomila «capetonde», che tondeggiano su una capa tricologicamente sterile ma prolifica di idee. Un vulcano di immaginazione già in eruzione a 6 anni, quando al piccolo e ancora capelluto Marcello (il nome Maccio sarebbe arrivato più in là, dopo l’adolescenza) fu regalata la prima cinepresa. Iniziò così l’avventura di regista fai-(tutto)-da-te del baby Macchia che, in 40 anni di disonorata carriera, sarebbe passato dal «montaggio combinato» (nel senso di «combinato» grazie a due videoregistratori) alle tecniche super-evolute da provetto youtuber.
Maccio, l’esordio fu horror?
«I video giovanili ambivano a terrorizzate lo spettatore. Ma chi li guardava, invece di morire di paura, rischiava di crepare dalle risate».
Noir nelle vene, meglio del sangue blu...
«A 14 anni iniziai a girare in versione comica trailer di falsi film ispirati a vere pellicole spaventose».
Il primo ciak di terrore?
«Il titolo era Jason a Chieti. Avevo preso spunto dalla saga di Venerdì 13. Raccontavo la storia di un tizio mascherato, Jason, che uccideva tutti, compreso il protagonista, e alla fine esultava da solo».
Il cast?
«Gli amici Luca, Alfredo e Roberto. Oltre a fare il regista interpretavo il protagonista buono e anche l’assassino Jason, tranne nel finale in cui venivo squartato dallo stesso Jason».
E come rimediò all’«inconveniente»?
«Nell’ultima scena l’assassino fu impersonato da Luca: infatti da uno stacco all’altro Jason divenne magicamente più longilineo».
Sostieni di sentirti a tuo agio più nei personaggi che interpreti che nelle vesti reali di Marcello Macchia.
«Penso di vivere in una sorta di spazio in cui se non interpreto un personaggio non sono niente. E il niente mi fa paura».
Come nascono i tuoi personaggi?
«Lo spiego in Libro. Sono già tutti parte di me, sedimentati sotto strati di vissuto, e sepolti per bene al mio interno. Per farli uscire ci vuole una scintilla, una scavatrice, una pala, o semplicemente un buon motivo come una richiesta esigente da parte di un committente».
Tra i primi ci fu «Mirkos».
«Un cartomante che leggeva il futuro attraverso strumenti molto particolari come i sassolini, il mestolo e il pendolino. Mi ispirai a un cartomante visto in tv che aveva la schiettezza di dire le cose come stavano. Anche Mirkos diceva le cose come stavano ma portate all’eccesso, il suo cavallo di battaglia era: Domani muori!».
I tuoi sono «mostri» di fantasia o figli della quotidianità di strada?
«Non c’è un personaggio che non si rifaccia a qualcuno che ho visto, incontrato o conosciuto, anche solo per un particolare».
Tipo «Mariottide».
«Mariottide, il cantante più triste del mondo. A ispirarmi in questo caso è stata la voce e l’atteggiamento di mia nonna materna».
E «Padre Maronno»?
«Padre Maronno è un mix tra un uomo delle caverne, il personaggio di Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco e mia madre che imita mio padre».
E «Piero Peluria»?
«Piero Peluria è l’espressione più becera e animalesca di me stesso».
Personaggi catartici, liberatori.
«Che mi permettono di essere quello che nella vita reale non sono e non potrei mai diventare».
Diventare Capatonda in risposta a un mondo che non quadra...
«Ribadisco: i personaggi mi danno la possibilità di esprimere le sfaccettature del mio essere che una vita sola, con la sua categorizzazione identitaria, non basta a tirare fuori».
Insomma, il solo Marcello Macchia non ti basta.
«Dirò di più: ritengo che la mia identità quotidiana sia una versione neutra, un manichino nudo, insensibile, una versione in stand by di me stesso.
Si dice che la tua è una comicità «surreale». Eppure nei tuoi video la denuncia sociale è evidente. Come si conciliano questi due aspetti apparentemente in contraddizione?
«Non vedo contraddizione. In Libro dedico un paragrafo al tema. Il mondo reale tende a inquadrarci e definirci in una particolare tipologia di individuo, ma grazie al mestiere dell’attore possiamo combattere e scardinare questa categorizzazione».
L’ironia come atto di ribellione.
«La comicità per me è una lotta contro la realtà, un atto di ribellione nei confronti del mondo e allo stesso tempo un modo per rivelare e rivendicare la propria natura di esseri complessi».
Un «trucco» per non farsi fagocitare dall’onda anomala del successo?
«Non prendersi troppo sul serio, giocare e non porsi limiti. Questo ti permette di dare sfogo al tuo essere più intimo, più spontaneo e originale. Ed è proprio questa capacità di giocare che dev’essere presa sul serio. Bisogna difenderla in tutti i modi e non permetterle di essere ingabbiata da sovrastrutture razionali o da timori».
Avresti mai immaginato che «far ridere» sarebbe diventata la tua professione?
«Produrre sketch comici è sempre stata la mia passione. Parodie che facevamo con leggerezza col mio amico Luca. Ma non mi è mai passato per la testa che quello sarebbe diventato il mio lavoro. Perché per me era solo un gioco, uno scherzo, qualcosa che non aveva l’autorevolezza del posto fisso così come lo intendevano i miei genitori».
A proposito di genitori. Hai definito il rapporto tra i tuoi genitori una «fantastica storia d’odio». È una battuta o la verità?
«La verità. Ma devo precisare due cose».
Prego...
«La prima è che il loro odio reciproco si trasformava in amore quando era rivolto verso di me, il che mi rendeva un bimbo ipercoccolato e benvoluto».
La seconda?
«È che percepivo chiaramente la solidità del loro legame. Per questo nutro una profonda stima per i miei genitori che continuano ad amarsi odiandosi (o ad odiarsi amandosi) ancora oggi».
Finché morte non li separi.
«No: finché morte non li spari».
Come condizione a questa intervista hai detto: «Ok. Ma niente politica». Eppure le parole «politica» e «politici» tornano più volte nel tuo libro.
«L’ho scritto e lo ribadisco. Ho come la sensazione che la scelta di fare il comico e in generale l’artista sia una via alternativa alla politica».
In che senso?
«Anzichè scendere in campo e cercare di cambiare le cose, si sceglie di comunicare il dissenso attraverso l’arte, la destrutturazione dei linguaggi, la risata. Svelare le idiosincrasie del sistema, i nervi scoperti, deridere i meccanismi sociali e di costume in fondo è come fare comizi».
«Comizi» sui generis.
«I comici che ottengono maggior successo sono quelli che riescono in fondo a creare una propria poetica e una propria visione del mondo».
Quindi il comico potrebbe definirsi «un politico mancato»?
«Sì. Ed è forse per questo motivo che odio la politica. La rifiuto categoricamente perché i politici sono quelli che in qualche modo ce l’hanno fatta. Quelli che giocano la partita nel mondo reale».
Il comico vive invece di fantasia?
«Il comico si rifugia nella fantasia perché la realtà gli sta stretta e gli fa male. Sotto certi aspetti penso di essere un vile, per non voler prendere parte alla battaglia politica della realtà. Ma in altri momenti mi sento rincuorato».
Da cosa?
«Dal fatto che molti politici sono dei comici mancati».
I giornalisti sono presenze costanti nei tuoi lavori: «Mario», «Oscar Carogna», «Salvo Errori»...
«Il mondo dell’informazione mi affascina. Anche durante la segregazione domiciliare causata dal Covid, il Tg40ena, che registravo nel chiuso di casa mi ha salvato dallo stress dell’isolamento».
Perché nel libro parli con toni sarcastici della città dove sei cresciuto?
«Non esiste luogo al mondo che può offrirti minor numero di accadimenti al di fuori di Chieti. E questa per me è stata una risorsa preziosa perché mi ha costretto a viaggiare con la fantasia».
Quindi se sei diventato quello che sei «lo devi» al fatto di essere cresciuto in provincia.
«A volte penso a quanto sarei stato improduttivo e serioso se fossi vissuto in una città piena di problemi e avvenimenti significativi come Milano, ma perché no anche New York o Caracas».
Invece a Chieti...
«Devo essere grato alla pigrizia di questa città che mi ha stimolato a tirare fuori quello che avevo dentro. O comunque ad aggrapparmi a quello che c’era e farne qualcosa di grande».
Qual è il succo della tua poetica?
«Cercare di spettacolarizzare ciò che è spicciolo, ordinario, di poco conto».
Ma se non ti avessero scoperto, e lanciato, quelli della Gialappa’s forse saresti ancora a Chieti.
«È vero. Infatti sono molto grato alla Gialappa’s. Ma anche a Chieti».
C’è una battuta che gli abitanti di Chieti odiano?
«Sì: Chieti, e ti sarà dato».
Quanti nel nostro Paese prendono la «pillola per utilizzare solo il 2 per cento del cervello» (citazione tratta dal film «Italiano medio» ndr)?
«Non saprei. Ma certo io sono uno di loro».