il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2021
Mangiare il corpo di Cristo
Corpus Domini. L’eucarestia. Il corpo e il sangue di Cristo. Il pane spezzato da Gesù durante l’ultima cena, il giovedì Santo, prima del venerdì della crocifissione e della morte. L’ostia consacrata è il centro della fede di ogni cattolico ed è reduce da venti secoli di dispute teologiche, codificazioni della Santa Sede, finanche sacrilegi nei riti satanici o magici nel Cinquecento delle streghe e dell’Inquisizione.
Ma in che modo c’è Cristo nell’eucarestia? Cattolici e riformatori protestanti di varia provenienza (non solo luterana) litigarono per decenni sulla presenza di Gesù nell’ostia preparata con frumento. Una questione complessa. Per Roma a codificare la dottrina fu san Tommaso d’Aquino. Una parola difficile, magari sentita senza coglierne il senso o il significato: transustanziazione. Cioè il momento della messa in cui il pane e il vino non mutano “le loro proprietà chimiche poiché la sostanza” che si trasforma non è “intesa in senso fisico, bensì metafisico”. Insomma, il pane e il vino conservano le loro qualità organolettiche, pur mutando la sostanza.
S’intitola Mangiare Dio. Una storia dell’eucarestia (Einaudi, 251 pagine, 28 euro) il bel saggio che lo studioso Matteo Al Kalak ha dedicato a una ricognizione storica e culturale del pane e del vino che da quasi duemila anni si trasformano sull’altare nel corpo e nel sangue di Cristo. Al Kalak ripercorre minuziosamente tutte le tappe di questo sacramento. Decisivo per tanti motivi sarà il Medioevo, laddove nella Chiesa di Roma si scontrarono due tendenze nell’era della Controriforma sancita dal Concilio tridentino. Da un lato il rigorismo che combatteva il lassismo eucaristico. In pratica, si poteva accostare alla comunione solo chi ne era veramente “degno”. Dall’altro, illustri prelati poi diventati santi – l’arcivescovo Alfonso Maria de Liguori e il cardinale Carlo Borromeo – e soprattutto i gesuiti che si battevano per avvicinare il maggior numero di fedeli possibile al corpo di Cristo, rammentando anche il valore “medicinale” per l’anima dell’eucarestia.
Nel saggio sono ricordati e descritti i miracoli eucaristici (quando l’ostia in alcune circostanze si tramutava letteralmente in un pezzo di carne) e si arriva ai giorni nostri con la diatriba “politica” sulla comunione. I clericali di destra, per esempio, in questa emergenza pandemica contestano l’obbligo della comunione data nelle mani del fedele. Liturgicamente si è trattato di uno sviluppo del Concilio Vaticano II ed è un ritorno alle origini del cristianesimo, prima della “clericalizzazione” dell’eucarestia che ha messo una distanza tra il sacerdote e i partecipanti della messa.
Lo spunto del saggio è in ogni caso scioccante. Muove da un noto evento tragico dell’ottobre del 1972, quando un velivolo dell’aeronautica militare dell’Uruguay precipitò sulle Ande al confine tra Cile e Argentina. I superstiti dello schianto, per sopravvivere, mangiarono la carne dei loro compagni. Cannibalismo. Su quell’aereo c’erano i ragazzi di una squadra di rugby di un college di Montevideo: gli Old Christians. Erano cattolici e per farsi forza pensarono al parallelo tra la carne invisibile di Cristo-ostia e quella dei loro amici morti. Mangiare Dio, appunto.