La Stampa, 8 novembre 2021
Le app per curare fobie e traumi
L’autodiagnosi è un malvezzo antico, forse eterno. E lo sono anche l’auto-prognosi e l’autocura. A tutte e tre le pratiche, inevitabilmente connesse, danno una grossa mano le App degli Smartphone, che hanno capitalizzato la ricerca su Google di sintomi, malattie, rimedi – prima di Google c’erano i forum, e prima dei forum c’erano gli epigoni di Wanna Marchi, domestici o televisivi che fossero, e prima ancora le zie, le nonne, le streghe. Di recente, un dato parecchio significativo registra il costante aumento del ricorso ad App che aiutano a superare o almeno controllare fobie e disturbi psichici. Più richieste (o più offerte?) già da prima della pandemia, sono aumentate con il lockdown e il mondo di dopo, che poi è questo di adesso ed è incerto e nuovo, impaurito e disgregato, impoverito. Si tratta di applicazioni che in poche mosse insegnano come superare l’ansia da prestazione, lo stress, l’agorafobia, l’aracnofobia, la paura di parlare in pubblico e offrono pure sostegno per il trattamento della depressione. Non si tratta che di un altro capitolo della disintermediazione di tutto e naturalmente ha a che fare con la sfiducia nella competenza, che è del nostro tempo, e con la protervia dell’autosufficienza, che è di tutti i tempi.
L’essere umano è un animale sociale poco collaborativo e la sua socialità gli fa patire la considerazione degli altri: è per questo che la stigmatizzazione della malattia concorre ad alimentare il successo di rimedi solitari. Chi ammette a se stesso le proprie nevrosi e quindi riconosce di doverle arginare o curare, non per forza è disposto a rivolgersi a qualcuno per farlo: teme d’essere preso per pazzo. Il Dottor House lo raccontava continuamente: la maggior parte delle diagnosi mediche sono ostacolate dalle bugie che i pazienti raccontano durante l’anamnesi. Il paziente mente sempre per vergogna.
A nessuno piace sedersi al centro di un bel salotto e dire a uno sconosciuto: salve, dottore, nell’ultimo mese ho fatto sesso con 45 estranei, avuto 35 attacchi di panico, pranzato sei volte al giorno, sto bene o male? Perché mai incomodarsi come Monica Vitti in Dramma della gelosia e confessare a un giudicante estraneo d’amare due uomini – lei poi diceva: «Dottore, è un disturbo neurovegetativo o è che sono mignotta?».
Molto meglio accendere il telefono, scaricare un’App, dopo essersi premurati di scoprire su Google di soffrire certamente di bipolarismo, e seguire le istruzioni che un gruppo di senza nome che ha provveduto a studiare, tramite non si sa bene cosa, come ci si può affrancare dalle persecuzioni di psiche e cervello. La privacy è assicurata e la rispettabilità pure.
Dopodiché, per i microproblemi, ci sono microsoluzioni: l’App Driver usa la realtà virtuale (RV) per «trattare l’amaxofobia, la paura di guidare, attraverso la riproposizione al paziente di diverse tipologie di scenari specifici, dalla guida in città a quella in galleria»; Klover, tramite RV, «espone il paziente a situazioni temute stimolo-crescenti» per superare la claustrofobia.
Però si trova anche molto altro, assai meno distopico, diciamo pure tradizionale. L’anno scorso, poco prima che andassimo di nuovo in lockdown, all’Università Bicocca venne ideata una App per lenire lo stress pandemico: ItaliaTiAscolto.
All’Huffington Post, il professor Preti, coordinatore del progetto, disse: «Non è un trattamento clinico, ma una prima accoglienza per chi presenta un disagio e necessita di uno spazio di ascolto in questo momento difficile, aggravato dal distanziamento sociale». Si accedeva, in sostanza, a incontri con medici, di un’ora, gratuiti, prenotabili dall’app, appunto. NewsMedical – Life Sciences, a ottobre si leggeva che la facoltà di psichiatria della Columbia University, in collaborazione con avoMD – «a gen clinical support platform» – ha sviluppato un’app che fornisce cure della depressione ottenuti (anche) grazie a studi algoritmici.
Il professor Massimo Ammaniti, neuropsichiatra e psicanalista, dice: «L’uso di questi strumenti è negativo anche perché comporta come prima cosa che un paziente si definisca con etichette che non corrispondono alla realtà. I problemi della patologia psichica sono molto estesi e difficilmente trattabili da un medico, figurarsi con un’applicazione che, magari, può dare una risposta a breve termine, un trattamento efficace per un paio di settimane, ma che non può indagare l’origine del disturbo, che quindi è destinato a ripresentarsi. Ho visto molti adolescenti che, essendo preoccupati per loro stessi, vanno in rete e si autodiagnosticano un disturbo della personalità. Io li scoraggio, naturalmente e capisco che il loro è un problema legato all’ansia. Peraltro, tanto Google quanto le App, più che sedare quell’ansia, la triplicano. C’è poi una specie di moda a dirsi malati: è un gioco e reca eccentricità. Per designarsi ci si dice borderline: è un fattore identitario».
Chiunque sia andato da un analista sa poi che da certi mali non si guarisce: s’impara a conviverci. Non con i tutorial, grazie.