Corriere della Sera, 8 novembre 2021
Måneskin fenomeno globale
Quando i Måneskin salgono sul palco, Diana, una signora bionda forse sulla sessantina, si aggiusta la maglietta nera con la linguaccia rossa disegnata da John Pasche e sorride imbarazzata: «Chi sono? Non li conosco». Siamo seduti di fianco su una gradinata laterale dell’Allegiant Stadium di Las Vegas. Venti minuti dopo Diana si volta, mentre Victoria De Angelis si produce con l’assolo di basso, snodo nevralgico di Zitti e buoni: «Cool, cool, sono bravissimi, specie questa ragazza».
I «ragazzi» sono quattro e si presentano con una tenuta da Quattro luglio, il giorno della Festa nazionale degli Stati Uniti. Pantaloni aderenti a strisce rosse, maglia luccicante blu con le stelle. Questa sera, in un tiepido sabato di novembre, hanno un appuntamento con la Storia. I Rollling Stones li hanno chiamati per aprire uno dei loro concerti. E, più tardi, in un frammento di due ore di spettacolo semplicemente sensazionale, Mick Jagger li ringrazierà (direttamente in italiano) davanti a 65 mila spettatori. E nel backstage ci sarà anche il tempo per un selfie, postato poi dalla band con un «best memory of all time».
Il tour americano non poteva finire meglio, anche se questa è un’occasione diversa dalle performance trionfali di New York e di Los Angeles. Ci sono tanti giovani, ma il grosso del pubblico ha un’età tra i cinquanta e i sessanta anni. Come la nostra vicina di sedia, quasi nessuno sa chi siano. Avrebbero dovuto consultarsi con i figli o i nipoti, che frequentano Tik Tok e ascoltano le radio alternative.
Però, quando si abbassano le luci, l’enorme arena è scossa da una frustata di energia. I Måneskin suonano con la solita intensità. Damiano è veloce, disinvolto. Chiama gli applausi quando intona Beggin’, la cover dei Four Seasons, un motivo del 1967 ripescato nel 2017 e ora trasformato in un «disco di platino», il riconoscimento che spetta a chi vende un milione di copie negli Stati Uniti. Da settimane Beggin’ è in testa alla classifica dell’Alternative Radio ed è al 14° posto nella graduatoria assoluta dei Billboard Hot 100.
L’accoglienza
Lo star system internazionale, non solo quello musicale, gli ha aperto le porte
Non c’è molto tempo: circa 45 minuti prima di lasciare spazio ai totem. Damiano se la cava bene anche nella parte del comprimario, almeno per una sera. Con un inglese sciolto aggancia l’attenzione della platea, parla di Las Vegas, introduce Mamma mia, altra hit delle classifiche americane. Chiusura con una dedica a Iggy Pop, una delle fonti di ispirazione del gruppo italiano. È andata bene: Damiano, Victoria, Thomas Raggi ed Ethan Torchio hanno superato anche il test della città più disincantata d’America. Las Vegas che riemerge dalla pandemia con i suoi hotel da 400 dollari a notte nel fine settimana. Con le slot machines tra un po’ posizionate anche nei bagni e con la grande musica, le grandi star che fanno parte del paesaggio naturale. Nelle ultime due settimane, tanto per dire, ci sono stati i concerti di Lady Gaga e di Sting.
Basterebbe solo questo per gonfiarsi di orgoglio nazionale, nell’anno degli Europei e delle Olimpiadi azzurre. Anche se agli americani i Måneskin piacciono non perché siano italiani. «Qui sono sbarcati in tanti: Laura Pausini, Vasco Rossi, Eros Ramazzotti, ma una cosa del genere non si era mai vista, perché i Måneskin sono percepiti come un gruppo internazionale», racconta Duccio Mortillaro, avvocato di Los Angeles e profondo conoscitore della scena artistica statunitense raccontata nel suo libro Hollywood, la fabbrica dei sogni infranti.
E in effetti sulla stampa Usa, a cominciare dal New York Times, i critici musicali si interrogano sulla carica innovativa dei Måneskin, mettendoli sullo stesso piano dei gruppi tedeschi, svedesi od olandesi. A parte qualche scivolone, la larga parte dei media statunitensi ha capito da decenni che il nostro Paese non è più quello della pasta con le polpette, le scarpe nere fiammanti e le melodie melense. C’è una generazione di italiani che ormai da molti anni si è affermata negli States per eccellenza e qualità di livello planetario. Che sia la ristorazione o la ricerca sui vaccini. Grazie ai Måneskin, questo momento, questo cambio di passo, potrebbe arrivare anche per la musica italiana. È ciò che ha dimostrato con chiarezza questo giro americano. Damiano e gli altri hanno dato prova di sapersi mescolare agevolmente con il mondo, di potersi misurare con una platea potenzialmente infinita. Se non fosse stato così la band probabilmente non sarebbe riuscita ad accendere la Bowery Ballroom di Manhattan, la vecchia tana di Patti Smith e dei Coldplay. Sarebbe naufragata al Roxy, dove si esibivano i Kiss e i Van Halen, uno dei due santuari rock di Los Angeles (l’altro è il Whisky a Go Go nella West Hollywood). E non avrebbe ben figurato nello show televisivo di Jimmy Fallon, la quintessenza della cultura pop newyorkese. Lo star system americano, non solo quello musicale, ha schiuso loro quelle porte rimaste per anni sbarrate per tante stelle o stelline italiane. Dopo il concerto di Los Angeles, tanto per fare un esempio, Damiano, Victoria, Thomas e Ethan hanno assistito da bordo campo alla partita dei Lakers, «ospiti d’onore» della squadra di LeBron James, il campione più popolare del basket Usa.
Per i Måneskin, «sguardo in alto, tipo scalatori» (ancora da Zitti e buoni) non può che essere una tappa. A gennaio torneranno negli States per partecipare al «iHeart Radio ALTer Ego», un festival di musica alternativa a Los Angeles. Ci saranno i Coldplay, gli Imagine Dragons, i Twenty One Pistols.