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 2021  novembre 08 Lunedì calendario

Manuel Agnelli parla dei Måneskin

Se c’è uno che conosce bene i Måneskin, questo si chiama Manuel Agnelli. Nella corsa che sembra senza fine, lui era presente alla linea di partenza, quando li prese, «verdi» come dice lui dagli studi di X Factor nel lontano 2017. E li ha poi accompagnati da lontano, fino a quest’esplosione «globale». 
Cos’ha provato quando Mick Jagger li ha ringraziati ieri notte? 
«Mi sono sentito orgoglioso di loro, perché vanno avanti con una grande sicurezza, molto naturali, senza montarsi la testa. Condividere poi il palco con la band più grande del mondo non li ha immobilizzati. E non dimentichiamo che sono andati a cantare prima degli Stones in italiano. È la cosa più bella: stanno aprendo un portone, cancellando una discriminazione storica nei confronti del rock nel nostro Paese». 
Come hanno fatto a superare la prova americana che fu feroce perfino con i Beatles? 
«Ma in America oggi non sono razzisti dal punto di vista musicale. Se sei bravo, sei bravo: là puoi venire da dove vuoi, l’America sa essere molto accogliente con chi sa fare. Il problema è un altro semmai: come li percepiamo di noi...» 
Ovvero? 
«Mi da fastidio il nostro provincialismo: solo in Italia, sui Måneskin, si cercano i difetti prima dei pregi. Perché da noi o sei Battiato o sei un tamarro, non c’è il concetto di rock nazionalpopolare e di qualità. I Rolling Stones non sarebbero mai nati qui». 
E In Italia, come nel mondo, il rock non lo stava facendo più nessuno, sembrava ci fosse spazio solo per rap e trap... 
«Sì. E non è solo una questione musicale: loro hanno rimesso al centro il noi, rispetto all’io, l’individualismo sfrenato e il machismo tipico di certo hip-hop. Il Covid forse ha cambiato un po’ tutto». 
Già, il machismo. Sembra nuova anche la loro concezione dei rapporti, della sessualità, sono «fluidi» i Måneskin. 

«Non recitano, sul palco sono molto teatrali, ma nella vita di tutti i giorni sono così, si sentono così. Il rock è stato liberazione sessuale, ma non fluido. Machista anch’esso, tranne Bowie. Anticipatore, ma è stato un caso unico. Ora è una generazione intera che si identifica. Poi, certo, ci sono state anche delle congiunture astrali...». 
Cioé? 
«Vincono X Factor, Sanremo, Eurovision. E di solito vincere quest’ultimo, fin troppo trash, non ti porta da nessuna parte, vedi ad esempio il caso di Conchita Wurst. Ma loro sono stati capaci di scegliersi i tempi, di cavalcarli, senza pianificare. Dimostrando un istinto mostruoso». 
Ma di quell’istinto si era accorto anche alle audizioni di X Factor di tanto tempo fa? 
«Sì. Era una band «verde», suonava benino ma non benissimo, avevano un piglio fricchettone e un look approssimativo. Ma la personalità l’ho colta subito». 
E, dal suo osservatorio di «X Factor», ci sono dei nuovi Måneskin all’orizzonte? 
«No, band come i Måneskin nascono ogni cinquant’anni. In Italia, anche ogni cento...».