Mai pandemia fu più annunciata. “Negli ultimi vent’anni nuove malattie infettive sono emerse al ritmo senza precedenti di una all’anno: ci si aspetta che la tendenza continui”. Così scriveva nel 2005 uno degli scienziati in prima linea nell’isolamento del virus responsabile della Sars, Malik Peiris, commentando il lancio del Regolamento sanitario internazionale.
Il Regolamento, sottoscritto da 192 Stati tra cui l’Italia, aveva l’obiettivo di garantire la sicurezza contro la diffusione internazionale di malattie limitando al contempo l’impatto dei provvedimenti sulla circolazione di merci e persone, e invitava ciascuno Stato a “istituire, porre in atto e mantenere un piano nazionale di risposta alle emergenze sanitarie”. Parole chiare, specie quel “mantenere”, cioè rendere operativo il piano e aggiornarlo periodicamente, non fermandosi alle dichiarazioni di intenti. Lo stesso anno, l’Oms stende anche le linee guida per la preparazione a uno scenario pandemico. Saranno le basi del famoso Piano italiano del 2006.
Nel 2007, dopo la scampata minaccia della Sars e due anni prima della pandemia dell’influenza detta Suina, esce un articolo quasi profetico su Clinical Microbiology Reviews, rivista scientifica edita dalla Società americana di Microbiologia. A firmare il testo, un team di infettivologi dell’Università di Hong Kong: “La presenza di un grande serbatoio di virus simili al SarsCoV nei pipistrelli ferro di cavallo, insieme alla cultura di mangiare mammiferi esotici nella Cina meridionale, è una bomba a orologeria. La possibilità che da animali o da laboratori riemergano la Sars e altri nuovi virus, e quindi la necessità di essere preparati, non dovrebbe essere ignorata”. “Bomba a orologeria”: gli scienziati mettono per un attimo da parte il gergo da laboratorio e urlano al mondo, cercando di farsi capire. Inascoltate Cassandre.
Inascoltate perché quando, nel 2009, l’Oms dirama nuove linee guida che chiedono di coinvolgere in modo sistemico l’intera società nella preparazione e nella risposta a una possibile pandemia, in pochi vi prestano seria attenzione, di certo non l’Italia. Eppure si tratta dell’aggiornamento del precedente Piano Oms di preparazione globale contro l’influenza del 2005, ossia una pietra miliare nello sforzo globale contro le pandemie. In questo documento del 2009, l’Oms raccomanda agli Stati di pensare al piano pandemico come a un impegno che coinvolga non solo il settore sanitario, ossia i ministeri della Salute e le strutture di cura, ma anche aziende, comunità e persino le famiglie, e sottolinea la necessità di integrare il piano contro le pandemie nei Piani di emergenza nazionale. Insomma, un salto ontologico nella concezione della preparedness. Secondo le disposizioni, con il Covid, per esempio, avremmo dovuto riorganizzare la rete dei trasporti e le modalità di spostamento per evitare contagi nella popolazione in età scolare. Dovevamo e potevamo essere preparati. La sinergia nel contrasto alla diffusione dei contagi è un concetto che già a partire dal 2009 risultava chiaramente esplicito.
Il 2013 avrebbe dovuto essere un anno di svolta: il Parlamento europeo, con la decisione 1082, obbliga gli Stati membri dell’Unione all’aggiornamento dei Piani pandemici. È lo stesso anno in cui dilaga la Mers, una sindrome respiratoria estremamente pericolosa: è di nuovo un coronavirus, resiste a temperature molto alte – come quelle del Medio Oriente – e ha una mortalità che in quel momento viene valutata del 35 per cento. Cioè più di un morto ogni tre malati individuati. Eppure niente: non accade nulla.
Anzi, si peggiora: tra il 2014 e il 2016 arriva Ebola, con 11.325 decessi e quasi 29.000 casi registrati in dieci Paesi, non solo dell’Africa occidentale, anche negli Usa, Regno Unito e Italia. Tuttavia, al nostro ministero della Salute, di aggiornare i Piani pandemici – e di renderli operativi, di “mantenerli”, come suggeriva già il Regolamento sanitario internazionale del 2005 – non se ne parla. Mers ed Ebola non sono abbastanza spaventose, probabilmente.
Con queste premesse, non sorprende la conclusione del panel indipendente nominato dall’Oms per analizzare gli errori della lotta al Covid. Il consesso di esperti, attivisti e civil servants, guidato da Helen Clark, ex primo ministro della Nuova Zelanda, ed Ellen Johnson Sirleaf, ex presidente della Liberia, a maggio 2021 ha pubblicato una disamina della risposta pandemica globale poco lusinghiera: “Anni di avvertimenti di un’inevitabile minaccia pandemica non sono stati presi in considerazione e risultano inadeguati i finanziamenti e le esercitazioni dedicati alla preparazione (contro nuovi virus si intende, nda)”. E prosegue: “Per il mese successivo alla dichiarazione dell’emergenza sanitaria internazionale (Public Health Emergency of International Concern, nda) del 30 gennaio 2020, troppi Paesi hanno adottato l’approccio ‘stiamo a vedere cosa succede’”. Non si tratta di critiche rivolte solo all’Italia, eppure rappresentano un punto di partenza perfetto per la storia a cui abbiamo dedicato diverse puntate di Report.
“La storia del Piano pandemico è come un fiume carsico, vedrete che tornerà di nuovo in superficie, magari esonderà”. È quello che dissi a Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella quando, tra febbraio e marzo del 2020, iniziammo a studiare il documento. Proprio decifrando le vicissitudini del piano e di chi se ne occupava al nostro ministero della Salute, abbiamo intravisto responsabilità più vaste e ancora più sistemiche. Cominciando a lavorare su questa inchiesta, abbiamo dovuto prima di tutto combattere contro le nostre stesse paure, e con limitazioni e problemi organizzativi impensabili sino ad allora. Non potevamo nemmeno immaginare che nei mesi successivi, mentre decine di migliaia di italiani si spegnevano, spesso in solitudine, l’inchiesta giornalistica avrebbe preso le sembianze della sceneggiatura di un film, tra fonti coperte, email criptate, verbali ministeriali non accessibili, autovalutazioni fasulle, colpi di scena, manovre diversive, clamorosi inciampi, storie apparentemente parallele che, alla fine, si incontrano.
In questo libro è mostrato tutto, anche quello che ancora era rimasto inedito. Alla fine, proprio a partire dall’inchiesta di Report, è scoppiato uno scandalo mondiale, in cui le falle dell’Oms e le responsabilità dell’Italia sono finite in prima pagina, dall’Australia al Messico, dagli Stati Uniti alla Svizzera. Quando l’Organizzazione mondiale della sanità ha iniziato a negarci le interviste o persino a criticare il nostro modo di fare giornalismo, quando volutamente non ci hanno mandato l’elenco delle guidelines che definivano i casi sospetti ai fini della sorveglianza epidemiologica, insomma, ogni volta che ci siamo ritrovati di fronte a dei muri, è stato allora che abbiamo trovato la forza di buttarli giù.
“Tanto peggio per i fatti” diceva Hegel, o almeno così si racconta, riferendosi a quegli eventi che contraddicevano le sue teorie filosofiche. La vita però insegna che i fatti sono come i grandi pugili: li puoi mettere all’angolo con trucchetti e mandare al tappeto qualche volta, ma loro si rimettono in piedi e ti colpiscono in faccia con la forza inarrestabile della verità.