La Lettura, 7 novembre 2021
Intervista a Louise Erdrich - Su "Il guardiano notturno" (Feltrinelli)
La carriera di Louise Erdrich è cominciata con due lettere. La prima, indignata, arrivava da un prete. Accusava Erdrich di avere scritto una storia di «fantasmi stomachevoli» ambientata in un convento. La seconda, firmata da Philip Roth, era un elogio sincero delle qualità letterarie dell’autrice.
Sono i primi anni Ottanta. Roth, che tra le tante qualità possedeva una sconfinata generosità nei confronti degli autori esordienti, aveva intuito che questa scrittrice riservata, nata in Minnesota il 7 giugno 1954 e cresciuta in Nord Dakota, avrebbe passato il resto della carriera nell’Olimpo della letteratura — la storia che scatenò l’ira del prete e i complimenti di Roth, intitolata Saint Marie, sarebbe confluita nel primo romanzo di Erdrich, Love Medicine, pubblicato nel 1984 (in Italia uscì l’anno seguente da Mondadori, con il titolo Medicina d’amore).
A quasi quarant’anni dall’esordio, Louise Erdrich torna con un nuovo romanzo, Il guardiano notturno (Feltrinelli), proprio mentre negli Stati Uniti ne sta uscendo un altro, The Sentence.
Il guardiano notturno ha vinto il Premio Pulitzer per la Narrativa lo scorso 11 giugno. È un lavoro di fiction storica, basato sulla vita del nonno materno di Erdrich, Patrick Gourneau, presidente del Consiglio direttivo della tribù dei chippewa della Turtle Mountain. Come il protagonista del libro, Thomas Wazhashk, anche il nonno della scrittrice era un guardiano di notte che portò avanti una strenua battaglia per difendere la sua gente dalle leggi di Washington.
Il romanzo è ambientato nel periodo tristemente ribattezzato «Termination Era», l’Era della terminazione, a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, quando il Congresso americano cercò di sbarazzarsi una volta per tutte delle comunità indigene. Quella che viene considerata l’età d’oro dell’America, scrive Louise Erdrich, è «in realtà un’epoca nella quale regnava Jim Crow e in cui gli indiani d’America toccarono il punto più basso del loro potere: le nostre religioni tradizionali messe fuori legge, la nostra base territoriale continuamente e illegalmente sottoposta a razzie (come succede ancora oggi) da compagnie di sfruttamento delle risorse, le nostre lingue indebolite dalle scuole governative». Al centro del romanzo c’è la House Concurrent Resolution 108 del 1° agosto 1953, una proposta di legge concepita per abrogare i trattati bilaterali stipulati con le nazioni indiane d’America «finché crescerà l’erba e scorreranno i fiumi».
Nel cast messo in scena da Erdrich c’è anche la giovane Patrice Paranteau, che lavora nello stesso stabilimento di rubini dove è impiegato Thomas. Patrice, che odia il suo nomignolo Pixie, mantiene la madre e un fratello. Il padre, alcolizzato, fa ritorno sporadicamente nella riserva dove vivono, in Nord Dakota — il mondo letterario di Erdrich —, per terrorizzarli e spillargli qualche dollaro.
In questo romanzo l’autrice abbandona il linguaggio allucinatorio e barocco di Medicina d’amore e Il giorno dei colombi (2008, il primo capitolo della «Justice Trilogy», che comprende La casa tonda, 2012, e LaRose, 2016, tutti Feltrinelli) per affidarsi a uno stile semplice e preciso.
Erdrich ha un quarto di sangue ojibwe, la tribù delle terre del Nord chiamata anche Chippewa («gli abitanti delle origini»). Erdrich ha perso il primo dei tre figli adottati con il marito, lo scrittore e antropologo Michael Dorris, suo professore al Dartmouth College. Dorris, da cui Louise Erdrich ha avuto altre tre figlie naturali e da cui si è separata nel 1995, si è suicidato nel 1997, finito sotto inchiesta per abusi sessuali proprio sulle figlie. Durante il primo tour promozionale, Erdrich chiese a una psichiatra seduta accanto a lei in aereo per quale motivo riuscisse a scrivere soltanto di abbandoni. La risposta fu laconica: «Cara mia, siamo tutti abbandonati». Come ha scritto Sandro Veronesi su queste pagine, tutti i libri di Erdrich sono ambientati dentro di lei.
In questa rara intervista, rilasciata per email a «la Lettura», Louise Erdrich si sofferma sul nuovo romanzo e sul presente degli Stati Uniti, dove ora si celebra il National Native American Heritage Month, il mese dedicato alla cultura e alle tradizioni dei nativi.
Che cosa l’ha spinta a narrare il periodo della «Terminazione»?
«Volevo concentrarmi su un tema che conosco bene. Mio nonno ha combattuto la Terminazione. La mia tribù, la Turtle Mountain Band of Chippewa, si è salvata per un soffio dalle leggi del Congresso. Ci sono oltre 576 nazioni tribali negli Stati Uniti. Ognuna ha una storia unica».
Torna l’esplorazione dell’universo femminile. Nel romanzo precedente, «La casa futura del dio vivente» (2017), le donne incinte venivano rastrellate e segregate. Adesso Patrice va alla ricerca della sorella, scomparsa a Minneapolis. Un’eco della cronaca americana: nel 2019, secondo l’Fbi, quasi seimila donne native sono state rapite o uccise.
«La persecuzione delle donne indigene è cominciata nel 1492. Non c’è niente di nuovo in questa storia, ma bisogna continuare a raccontarla perché non venga dimenticata. Grazie alla mia arte, sono sopravvissuta come madre single e scrittrice. I miei libri sono figli della disperazione e di tanta dedizione».
Il dramma si fonde con l’umorismo nero, il misticismo e il folclore. Come nasce questo romanzo?
«È impossibile descrivere il processo di creazione. Si comincia a scrivere senza sapere, si continua senza sapere. Alla fine, in qualche modo, troviamo un piccolo bagaglio di conoscenza».
È vero che suo padre le dava un nickel per ogni storia che scriveva?
«Sì. Erano un sacco di soldi in quel periodo! Li usavo per comprarmi ghiaccioli al gusto d’uva: due per un nickel. È stato il carburante della mia ambizione».
Ci sono due livelli di linguaggio in questo libro: l’inglese subdolo, fatto di tecnicismi, del governo e l’inglese più autentico, parlato nella riserva, mischiato alla lingua chippewa.
«Il linguaggio dell’espropriazione, come quello della guerra, è intenzionalmente asciutto. Viene usato da chi commette crimini per sembrare più giusto».
Oltre al suo romanzo, ai Pulitzer è stata premiata la raccolta di una poetessa nativa, Natalie Diaz. Deb Haaland è la prima nativa segretaria dell’Interno; Joy Harjo è la prima persona nativa ad essere poeta laureato d’America. Qualcosa sta cambiando?
«Questi riconoscimenti mi danno gioia. Al Congresso è stata eletta anche Sharice Davids, della tribù Winnebago, mentre la vicegovernatrice del Minnesota, Peggy Flanagan, appartiene alla White Earth Nation. Questo è il tempo delle donne native. A lungo desiderato».
Come ha accolto l’elezione di Biden?
«Ho vissuto in uno stato di tensione e di dolore per il mio Paese durante l’amministrazione Trump. Quando Biden ha vinto ero felicissima. Ma la nostra democrazia è danneggiata, ancora in bilico».
Però alle Presidenziali del ’72 votò il repubblicano uscente Richard Nixon e non il democratico George McGovern.
«Nixon mise un freno alla Terminazione. Conosceva il mondo nativo. Quel voto fu tuttavia influenzato da mio padre: continuava a criticare “George” e io pensavo si riferisse a McGovern. Invece scoprii più tardi che parlava di George Wallace, il segregazionista dell’Alabama. Se lo avessi ascoltato più attentamente avrei votato anche io per McGovern».
Giovani autori indigeni, come Tommy Orange e Terese Mailhot, affollano il panorama letterario. L’America è pronta ad accogliere queste voci?
«Ho aperto una libreria a Minneapolis, la Birchbark Books, con la speranza che venissero rappresentati sempre più autori nativi. È successo e mi sento ancora più incoraggiata. La letteratura è aperta a nuove voci. È una sensazione esaltante».
Quali sono i grandi equivoci che dividono il mondo non-nativo da quello nativo?
«Ce ne sono talmente tanti che non saprei da dove cominciare. Ciò che posso fare è invitare le persone a leggere An Indigenous Peoples’ History of the United States di Roxanne Dunbar-Ortiz».