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 2021  novembre 07 Domenica calendario

Pupi Avati racconta il suo Dante


Arrivo fuori tempo massimo proponendo un mio Dante quando ormai i più accreditati studiosi hanno dato il loro meglio per celebrarlo in questo anno speciale. Arrivo da ultimo, senza nessuna legittimazione accademica, quando gli scaffali delle librerie si stanno ormai liberando della dantistica.
La ragione è che il mio rapporto con Dante non ha nulla a che fare con gli anniversari. Non ne subisce la fascinazione nella convinzione che la sua vita e la sua opera abitino un tempo sospeso, ormai affrancato da qualsivoglia scadenza. Un tempo che ha ben poco a che fare con l’incedere delle bande e delle strisce tricolori. È mia certezza, insomma, che Dante permanga immutabile, sordo ad allettamenti sociopolitici, nel divino cielo della poesia, percorrendo quella traiettoria sublime alla quale davvero hanno dato mano cielo e terra.
È mia certezza che la dismisura del suo mondo poetico, il mistero di gran parte della sua vicenda umana, legittimino un romanzo.
Quello strumento del narrare che procede liberamente per congetture, azzardando l’avventurarsi in quelle porzioni della sua vita, sulle quali la ricerca scientifica, priva di certezze, non osa addentrarsi. Non è così per il romanzo che, nel metterti nella condizione di congetturare privo di censure, offre a chi narra la possibilità di disporre di una intera vicenda umana, nella sua vastità.
Assolto quindi dall’obbligo di un avallo accademico ho cercato di desumere quale possa essere stato il rapporto di Dante con la propria creatività. Creatività che si appalesa in lui in modo inesplicabile, non trovandosi nei suoi avi, fin dai Fontana di Val di Pado, traccia alcuna di talentuosità letteraria, ma solo ingegno per battagliare, negoziare denaro o trafficare poderi.
Voglio convincermi che Dante, nel pervenire alla consapevolezza della sua superlativa immaginazione, abbia vissuto la sublimità, per raggiungere quella poesia dell’ineffabile che sfiora nel Paradiso l’inesprimibile.
Questa la felicità concessagli, il risarcimento dovutogli.
«Uomo conceduto di spezial grazia da Dio», lo definisce il Boccaccio.
Circoscrivere Dante nella forma del romanzo, quel Dante non detto, non ancora sufficientemente detto, dai mille che si profusero nel dirlo, mi era in realtà parsa impresa impossibile fino a quando una ventina di anni or sono entrò nella mia vita Giovanni Boccaccio. Se non mi fossi imbattuto in quel suo Trattatello in Laude di Dante Alighieri non avrei mai trovato l’ardire per accingermi a questa impresa.
Ho narrato quindi Dante ricorrendo all’ineffabile Certaldese e un poco alle mie infinite, disordinate e soprattutto immaginarie letture, convincendomi che sia stato il dolore a produrre in Dante quella sensibilità così eccelsa, così sacrale: «Questi fu quel Dante che fu dotato di speciale grazia da Dio, quel Dante che per primo aprì la via al ritorno delle Muse, quel Dante per cui la morta poesia si può dire rinata…». Così Giovanni Boccaccio dava inizio al racconto della sua vita, denunciando la somma riconoscenza che avrebbe universalmente meritato e, al contrario, la somma ingiustizia che aveva patito.
Nella letteratura di tutti i tempi nessun poeta avrebbe fatto così tanto per un altro poeta.
E tuttavia, malgrado questo suo commovente prodigarsi, il figlio primogenito dell’usuraio fiorentino Alighiero di Bellincione resta un “enigma”, costringendoci ad avvicinarci a lui per bagliori, per congetture, con quel piacere segreto che dà l’almanaccare. Senza tuttavia pervenire al mistero di quella sua sacrale visionarietà.
Se non ci fosse stato questo legame di così indissolubile amore che provò per lui Giovanni Boccaccio, di certo non avrei mai trovato l’ardire per narrare questa storia. Storia nella quale ho cercato di dire la ragione del mio innamoramento per quel ragazzo che si trovò a vivere la vicenda dolorosa che ricostruisce con tanta acribia nella Vita Nova.
Nel 1966, nella Basilica di San Francesco in Arezzo, sulla scorta di una ricca documentazione, esperti dantisti si misurarono con avvocati e giudici per analizzare la vicenda giudiziaria di Dante Alighieri, risalente ad oltre sei secoli addietro. Fu un processo indetto per comprendere perché a un intellettuale impegnato per un futuro migliore fosse stata riservata dai suoi stessi concittadini una così disumana condanna.
Malgrado una scontata e doverosa assoluzione, le ragioni dell’accusa e quelle della difesa, per un buon tratto del dibattimento, parvero equivalersi.
Sarà stata la lettura di quei verbali, risalente ormai a mezzo secolo fa, a convincermi di quanto ci sia ancora ignoto questo essere così speciale, così unico, a convincermi che il “desumerlo” attraverso la sua opera ti induca a considerarlo senza alcuna incertezza come il più straordinario poeta della nostra storia. E per poterlo asserire senza alcuna titubanza è sufficiente aver letto la sua Vita Nova. Dante non ancora trentenne, ancora prima della grande ingiustizia dell’esilio, è capace di poesia in senso così profondo e assoluto non solo da porsi ai miei occhi come primo fra tutti coloro che lo precedettero ma anche fra tutti coloro che verranno.
È in realtà questo il mio Dante, quello che ho “immaginato” e che forse ho voluto trovare.