Corriere della Sera, 7 novembre 2021
Intervista a Vincenzo Mollica
Elvira SerraIl giornalista: ora guardo con gli occhi della mia Rosemarie
L a prima intervista?
«Con il Dalai Lama. Ero appena stato assunto in Rai da Emilio Rossi e Nuccio Fava, a due giorni di distanza da Enrico Mentana, e ci spedirono entrambi agli Esteri per farci le ossa: eravamo i più giovani. Mi mandarono al Grand Hotel per questa conferenza stampa in cui il Dalai Lama fece i suoi discorsi pacifisti, ma io ottenni anche l’intervista. Quando tornai tutto contento da Ottavio Di Lorenzo lui mi spense: “Bene, fai un minutino per la notte”».
La prossima, se potesse?
«A Banksy, per chiedergli come fa a dipingere desiderando allo stesso tempo sparire».
Vincenzo Mollica ha molti doni. L’umiltà, anzitutto, con cui racconta i suoi incontri straordinari senza ombra di autoreferenzialità, con rigore di cronista. Poi la generosità del tempo, un pomeriggio, nel quale riordina quarant’anni di ricordi nonostante il fastidio della mascherina. Alla profonda cultura, alla curiosità e alla passione con cui ci ha accompagnato per lustri tra i do, re, ciak e gulp italiani e stranieri, si aggiunge un altro dono: sua moglie Rosamaria, o Rosemarie, come la chiama lui dai tempi dell’università alla Cattolica di Milano, dove si fidanzarono un 14 febbraio dopo un concerto di Giorgio Gaber. Sembrano due innamorati di Peynet, seduti vicini sul divano, con le pareti tappezzate di quadri che sono attestati di affetto: un favoloso Andrea Pazienza con Zanardi accanto a Betty Boop, in cui sotto la firma dell’autore si legge un piccolo baffo, l’«autografo» (autorizzato) di Caterina, la figlia del giornalista ai tempi bambina; un sontuoso Mario Schifano che ritrae Mollica con una scatola bianca al posto della testa, la televisione; acquerelli di Fellini, un nudo di Dario Fo, gli alberi di Pablo Echaurren, un commovente autoritratto di Franco Battiato che medita su un tappeto sospeso da terra. In tanta bellezza, illuminata dagli occhi di Rosemarie che sono diventati gli occhi di Vincenzo, trovano posto anche quegli «amici non richiesti» con cui il padrone di casa ha dovuto fare amicizia: il Parkinson, il diabete e il glaucoma.
Vincenzo, tra Lady Gaga, Jessica Rabbit e Betty Boop, chi sceglierebbe di intervistare?
«Lady Gaga l’ho già intervistata, ma sinceramente vorrei Betty Boop: mi ha sempre divertito per la sua arguzia e ironia».
Lei è il fondatore del Boopismo. Cos’era?
«Un movimento avanguardista inesistente del ‘900, nato con la sua musa ispiratrice, Betty Boop, che si intrufolava nei quadri di de Chirico, Hopper, Magritte, Picasso e tanti altri, rivisitati da me. Gli unici contributi veri al Boopismo furono le “perizie” di Francesco De Gregori, Pablo Echaurren e Milo Manara, che commentarono i miei “scarabocchi” ospitati nelle sale del Vittoriano».
Con chi si è emozionato di più?
«Al primo incontro, con Marcello Mastroianni, Sophia Loren, Celentano... Ma c’è una persona che non ho intervistato e che però ho conosciuto ed è Mina: quello è stato un momento davvero emozionante, perché l’ammiro per la cultura, la generosità, la curiosità...».
Parliamo di Fellini.
«Con lui sembravamo compagni di scuola: ci univano i fumetti. Ho avuto la fortuna di essere testimone di Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet, disegnati da Milo Manara. Lavoravamo a casa sua, in via Margutta al 110. Mi faceva effetto stare lì con lui, in genere il sabato o la domenica pomeriggio, quando era libero. Arrivava Giulietta con due vassoi con carta bianca, penna e matita. Se squillava il telefono lui sollevava la cornetta e imitava la voce della segretaria o della governante. Poi all’ora di cena Giulietta mi chiedeva: “Ti fermi? Ti faccio i bombolotti col tonno”. A me nel piatto metteva doppia porzione e di nascosto Federico mangiava la mia».
La sua canzone preferita?
«Azzurro. Vale un romanzo».
Il film?
«La strada di Fellini, perché ti fa capire il valore della vita. Convinsi Giorgio Gavazzano a farne la parodia su Topolino. Giulietta Masina gli diede dei consigli sull’abito di Minnie. Quando uscì, Fellini era a Chianciano e comprò tutte le copie che poté trovare in edicola».
Cannes, Venezia, Oscar: cosa preferiva?
«L’emozione era diversa e pazzesca. Ricordo le vittorie di Tornatore, prima a Cannes e poi agli Oscar: ero andato a Los Angeles con Cristaldi, il produttore; un viaggio di memorie».
Il Festival di Sanremo più bello?
«Tutti, ogni edizione è come un libro nuovo che si apre. Forse, però, quello in cui Vasco cantò Vita spericolata: lo aspettavano per le prove e arrivò con abbondante ritardo... Andavo a Sanremo anche per il Club Tenco, dove feci l’incontro sfolgorante con Francesco Guccini. E lì organizzai una mostra in cui la musica incontrava i fumetti. La intitolai “Do Re Crack Gulp”, dove il crack non era la droga, ma il suono onomatopeico che Hugo Pratt assegnava al fucile che sparava. Da lì nacque il nome della mia rubrica al Tg1: DoReCiakGulp!»
Vasco l’ha definita «la rockstar del Tg1», Benigni «la mia canzone preferita di Sanremo». Come si spiega tutto questo amore?
«Mi commuove. Mara Venier ha organizzato una festa per il mio pensionamento, il 1° marzo del 2020. Pensavo di dover andare al suo programma e di cavarmela con una mezz’oretta e invece è passata un’ora e mezza, piena di omaggi: pure Celentano!».
Il giorno prima c’era stata la standing ovation all’Ariston, con Fiorello e Amadeus.
«Fiorello lo conobbi a metà degli anni 80, come cantante. A cementare la nostra amicizia fu Bibi Ballandi, per lui un fratello maggiore. Fiorello mi ha dedicato uno dei momenti più belli della mia carriera: sono entrato in Rai da essere umano e sono uscito da pupazzo».
Il suo peluche, in «Viva RaiPlay!».
«Mi mandava su WhatsApp le frasi che dovevo ripetere per doppiare il pupazzo: li trovavo già alle 6.30-7, quando mi svegliavo».
E allora citiamolo: quand’è l’ultima volta che le è partita la sciabbarabba?
«Ma io non lo so cosa vuol dire!».
Una settimana dopo il pensionamento eravamo tutti in lockdown. Come lo ha vissuto?
«Pieno di speranza».
Speranza?
«Sì, con la voglia di esserci, di capire, di vivere quello che stava succedendo. Per me è essenziale sperare, altrimenti non sarei riuscito ad affrontare le mie malattie. Rosemarie è bergamasca, questa estate finalmente siamo tornati in Val Seriana ed è stato bello veder rifiorire la valle. Torneranno i prati, per dirla con Olmi, di Treviglio come mia moglie: quando si incontravano parlavano in dialetto».
Ha sempre dato l’idea di voler bene alle persone che intervistava. Che effetto le fa sapere che Carrà, Battiato e Proietti non ci sono più?
«Sono momenti dolorosi. L’ultima volta che ho intervistato Battiato gli parlai della vista che mi abbandonava e lui mi sfiorò con un dito l’occhio che funzionicchiava e disse: Vincenzo, bisogna affrontare tutto con semplicità».
Le proposero di passare alla concorrenza?
«Me lo chiese Mentana, quando lasciò la Rai per fondare il Tg5: Mimun e Sposini avevano già accettato. Io mi confrontai con Rosemarie, poi con Fellini e Arbore. Tutti mi dissero la stessa cosa: devi fare quello che ti senti. Ci pensai una notte intera e decisi di restare, perché per me il Tg1 non è mai stato un luogo di lavoro, ma un sentimento».
Sua moglie per quarant’anni l’ha accompagnata ogni mattina al lavoro ed è venuta a riprenderla la sera.
«Quando Caterina era piccola, prima portavamo lei a scuola. Quella mezz’oretta in auto è stato il nostro modo per ritrovarci, per alimentare i valori veri. Lei è l’amore della mia vita».
Cosa le manca di più?
«Disegnare. Camilleri mi disse che prima di addormentarsi ripassava i quadri belli che aveva visto nella vita. A me mancano gli acquerelli e l’Indian Yellow, che in omaggio alla mia cittadinanza canadese usavo come base, è il colore della speranza. Ho un account Instagram dove pubblico frasette in rima o i disegni che faccio a memoria: mi seguono in 127 mila».
Non abbiamo detto nulla degli stranieri. Jack Nicholson?
«La prima volta lo intervistai in ascensore, all’Hotel de la Ville, dopo una conferenza stampa. Era andato via, ma io mi sono piazzato in ascensore e due domande gliele ho fatte!».
Paul McCartney?
«Aveva espresso il desiderio di far girare il video di un nuovo singolo a Fellini, ma all’ultimo minuto, con la cena pronta, saltò tutto. Quando poi Fellini morì, trovai tra i suoi scritti un appunto in pennarello azzurro per il famoso video: aveva immaginato l’ex Beatles cantare al Colosseo mentre la città si svegliava. Lo raccontai a McCartney che si commosse. Infine lui ha cantato davvero al Colosseo, e quel giorno mi sono commosso pure io».
Bruce Springsteen?
«Mi chiamava Fast-Man, perché ero veloce, non gli rompevo troppo le scatole: non andavo da fan. Il regalo più bello che mi ha fatto è stato improvvisare When the Saints Go Marching In con la chitarra messicana piena di ex voto».
Bob Dylan?
«Aveva già smesso di fare interviste, ma una volta gli ho potuto stringere la mano, a un concerto per il Papa, e mi è bastato».
Pensa mai alla morte?
«Ci penso, non con ribalderia, ma come a un evento che deve essere naturale e che mi sorprenderà».
In Paradiso chi vuole intervistare?«Stanlio e Ollio, i due poeti della comicità. E Charlot, il patriarca del cinema: lui ne ha gettato le fondamenta, Fellini ha insegnato al mondo che nulla si sa, tutto si immagina».