la Repubblica, 7 novembre 2021
Paolo Veronesi ricorda suo padre Umberto, tra tradimenti e immortalità
Domani alla Scala, Milano ricorda Umberto Veronesi cinque anni dopo la scomparsa. La sua vita è stata come lo scorrere di un fiume. Alla foce lascia sette figli. Paolo, Alberto, Marco, Pietro, Silvia e Giulia avuti dalla moglie Susanna Razon. Francesco dalla relazione con Emanuela Properzij. I nipoti sono diciotto. Paolo Veronesi, che compirà 60 anni il 7 dicembre, è il primogenito e oggi all’Istituto europeo di oncologia fondato dal padre è il direttore del programma di senologia. «Nella mia memoria, dice, tutto comincia e tutto finisce con l’immagine di un’auto.
Ricordo nitidamente, avrò avuto sei o sette anni, il giorno in cui papà si presentò sotto casa con una Jaguar grigia bellissima, comprata usata, che mi impressionò perché aveva ruote a raggi e due tubi di scappamento.
Le Jaguar erano la sua passione e l’ultima ce l’ha lasciata cinque anni fa».
Com’è stato vivere in una famiglia così numerosa, senza dubbio un’eccezione per la media italiana?
«Era una comunità e era molto unita, anche se per me bambino non è stato facile superare la gelosia nei confronti dei miei fratelli. Immagini, all’inizio avevo tutta l’attenzione dei mei genitori, poi divisa in due, poi in tre, in quattro, cinque, sei. Mamma correva dietro a tutti».
Che tipo di padre è stato Umberto Veronesi?
«Aveva poco tempo, ma quando era presente era un papà molto coerente, aveva le idee chiarissime su come dovevano essere i rapporti tra noi fratelli, lasciava la massima libertà ma ci inculcava in tutti i modi i principi che lo hanno guidato nella vita, l’onestà prima di tutto».
Mai uno schiaffo, una sculacciata?
«Una volta sì, eravamo nella nostra casa sul lago Maggiore e io avevo menato uno dei mei fratelli più piccoli: questo lo faceva andare in bestia e quella volta mi ha mollato un ceffone. Poi mi ha chiesto scusa, non era da lui alzare le mani. Ci teneva tantissimo a organizzare ogni anno a Pasqua un viaggio con tutti i figli, gli zii e i cugini. All’inizio in Europa, poi in tante capitali straniere. Così ho conosciuto il mondo. Da solo non ricordo una vacanza fatta con lui, ma solo qualche avventura, per esempio la traversata del Monte Bianco con gli sci».
Quando avete scoperto la sua vita segreta: gli altri amori, i tradimenti, un figlio da una donna che non era vostra madre?
«Che a papà piacessero molto le donne lo sapevo bene, però non dimenticherò mai il giorno in cui entrò nella mia camera e si sedette sul letto. Capii subito che la questione era seria, perché non lo aveva mai fatto prima: infatti mi raccontò che stava aspettando un altro figlio ma che nulla sarebbe cambiato nella nostra famiglia.
Cosi andò e mi sono trovato un altro fratello, ora anche lui padre di due bellissime bambine e in attesa della terza, cui siamo tutti molto legati».
In quel momento qual è stata la
sua reazione?
«Non ho avuto alcun risentimento nei suoi confronti, anche se mi è spiaciuto tantissimo per la mamma. Francesco ha sempre fatto parte della nostra famiglia e mia madre è molto legata a lui. Io ho ottimi rapporti anche con Emanuela».
Susanna ha raccontato la sua sofferenza in un libro. Quali meriti le vanno riconosciuti?
«Ne ha avuti tantissimi, pensi soltanto cosa ha significato partorire e allattare sei figli in dieci anni senza mai smettere di fare la pediatra in ospedale. Il più importante però è stato quello di superare i momenti per lei difficili come la nascita di Francesco e tenere insieme la nostra famiglia».
Quando ha deciso di fare il medico?
«Fino alla maturità avevo la passione della matematica e volevo iscrivermi alla Normale di Pisa, poi sul finire dell’estate del 1980, in vacanza all’Argentario ho cominciato a riflettere con papà sulla possibilità di fare medicina e tornato a Milano mi sono iscritto, per scoprire poi che era la mia vera vocazione. Mi sono divertito a studiare, avevo smesso di correre in moto e volevo comunque primeggiare in qualcosa. Dopo la laurea con una tesi in cardiochirurgia e una specialità in chirurgia plastica capii che la mia vera passione era la senologia per cui presi la specialità in chirurgia generale per occuparmi di quello che oggi riempie tutte le mie giornate: i tumori della mammella».
Che cosa le ha dato suo padre sul piano professionale?
«Tantissimo, un’esperienza ineguagliabile. Ho cominciato a lavorare al suo fianco in studio, diciamo come apprendista, quando avevo 26 anni e avevo appena finito i 15 mesi di militare come ufficiale medico e non ho mai smesso. Trent’anni di vita professionale insieme che mi hanno permesso di conservare l’umiltà del medico che ancora oggi può essere impotente di fonte ad alcune malattie ma non deve mai abbandonare le proprie pazienti. Credo che l’insegnamento più importante, al di là della raffinatezza diagnostica, dell’uso delle mani spesso oggi sottovalutato, della tecnica chirurgica, sia proprio il voler bene ai malati. Un legame che loro sentono e che spesso fa la differenza».
Quali sono state le sue più grandi intuizioni?
«In campo oncologico sicuramente la terapia conservativa del tumore della mammella, che ha aperto la strada a un approccio totalmente innovativo in tutta l’oncologia moderna. Il paziente al centro, la qualità della vita prima di tutto.
C’è poi una sua intuizione a cui ho pensato molto durante la pandemia. Il suo interesse per i virus. Era affascinato dallo studio dei virus, convinto che avrebbero avuto un peso importante sulla nostra salute. Pensava che anche alcuni tumori del seno avessero origine da un virus. Voleva aprire una divisione di virologia allo Ieo».
Diceva: io sono uno sconfitto, non sono riuscito a debellare il cancro. È così?
«Negli anni Ottanta sosteneva che ci sarebbero voluti ancora vent’anni per battere il cancro, ne sono passati quaranta, per questo si riteneva un perdente. La sua era falsa modestia.
Ora la ricerca ha compiuto una vera e propria rivoluzione, per cui comincio davvero a credere che non manchi tanto al traguardo».
Umberto Veronesi incarnava i valori della sinistra, ma sapeva dialogare con tutti e andare contro corrente.
Lei è tentato dal centrodestra: avrà il coraggio di provarci?
«Se riuscissi a conciliare almeno parzialmente il mio lavoro, come fece lui da ministro prima e da senatore poi, perché no?».
Cosa serve alla sanità dal piano di ricostruzione?
«Mai come in questi due anni abbiamo visto i ritorni in brevissimo tempo degli investimenti fatti. Le risorse hanno consentito lo sviluppo dei vaccini e le campagne di immunizzazione con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Gli investimenti previsti in sanità devono consentire di ottenere effetti molto più rapidi rispetto a quanto siamo abituati nella soluzione delle principali patologie, prime fra tutte quelle oncologiche».
Qual è l’ultima immagine che le resta di suo padre?
«Le parole dette alla mamma.
Guardandola negli occhi le ha sussurrato: Susi, come sei bella».
Una volta mi chiese chi aveva inventato la macchina a vapore.
Naturalmente non lo sapevo.
Ecco, mi disse, io sarò dimenticato allo stesso modo.
«Vede, papà ha lasciato non solo un pensiero, ma strutture capaci di applicare e sviluppare questo sistema nel tempo, anche dopo di lui. Penso allo Ieo che è il primo centro oncologico in Italia e il decimo nel mondo nella classifica World’s Best Specialised Hospitals
di Newsweek. E penso alla Fondazione per il progresso delle scienze che porta il suo nome, una delle maggiori charity italiane in ambito medico-scientifico. Mio padre ha saputo vivere per il futuro fino alla soglia dei 91 anni.
Non è facile pensare al dopo di sé.
Anzi, invecchiando diventiamo più egoisti e aggrappati al presente che si sgretola. Lui ha fatto il contrario. E così si è garantito l’immortalità.
L’immortalità delle idee».