La Stampa, 7 novembre 2021
Intervista a Wes Anderson
Nelle immagini e nelle parole di Wes Anderson la realtà diventa un elemento secondario, uno dei tanti colori di una tavolozza fatta di disegni, animazione, suggestioni, fumetti. Passando da una tonalità all’altra, mescolandole tutte per creare un colore completamente nuovo e originale, Anderson costruisce i suoi film dallo stile inconfondibile, affidando agli attori prediletti il compito di dare carne e sangue alle sue visioni: «Cerco di non ripetermi mai, ma poi mi sembra sempre di farlo, desidero girare film che siano personali, ma anche interessanti per il pubblico». In The French Dispatch (dall’11 nelle sale) mette in scena le pagine di un rotocalco americano, pubblicato in un’immaginaria città francese del ventesimo secolo. Ognuna delle quattro storie raccontate corrisponde ad altrettanti articoli che, letteralmente, prendono vita sullo schermo, illustrati dai loro autori e dagli altri membri della redazione, tutti riuniti per rendere omaggio al fondatore e direttore del magazine Arthur Howitzer (Bill Murray) scomparso a causa di un attacco di cuore.
Da dove nasce l’idea di The French Dispatch?
«L’ispirazione viene dalla rivista “The New Yorker” che leggevo da ragazzino, fin dalle scuole superiori. Durante il secondo anno, a Huston, l’appello si faceva in biblioteca e di fronte a me c’erano questi scaffali di legno pieni di rotocalchi, sono stato attirato da un’illustrazione su una copertina e, da allora, ho cominciato a leggere sempre quella rivista, anche i numeri arretrati, e a imparare i nomi dei giornalisti che apparivano più spesso, insomma sono diventato un vero patito».
Il suo racconto suggerisce inevitabile nostalgia verso il periodo d’oro dell’informazione su carta. Lei che rapporto ha con i giornali?
«Gli autori degli articoli del “New Yorker”, gli scrittori che ho conosciuto su quelle pagine, mi hanno molto ispirato, ho un debito nei loro confronti, li considero tutti con affetto, per creare questo film ho rubato da loro. Sono molto legato alla straordinaria tradizione del giornalismo di carta stampata, ogni giorno non posso fare a meno di comprare e leggere un quotidiano, e il film parla proprio di quel giornalismo che sta scomparendo».
Nel film si vedono cronisti che seguono piste, altri che lavorano sull’immaginazione. Cosa pensa della nostra era di informazione web e di «fake news»?
«C’erano, già in passato, direttori di testate che richiedevano l’invenzione delle storie, esiste una lunga tradizione di giornalismo basato su false notizie, create proprio per vendere di più. Nel film ho cercato di mettere in evidenza figure giornalistiche diverse, quanto a oggi direi che, quando leggiamo notizie, sappiamo che spesso vengono pubblicate senza nessun tipo di mediazione, il che significa che molte di queste siano prive di fondamento. Una volta non era così, naturalmente preferisco il passato».
The French Dispatch è un omaggio al cinema e ai fumetti d’oltralpe, e anche al clima di una certa provincia francese. Perché?
«Abbiamo girato a Angouleme, la capitale del mondo a fumetti, nella città ci sono omaggi ovunque, anche statue di personaggi dei fumetti, scuole per fumettisti e studi di animazione. Le sequenze animate sono state realizzate da persone che lavorano in quelle scuole e che poi hanno preso parte alle riprese come comparse. Il cinema francese nasce con il cinema stesso, con i fratelli Lumière e Georges Méliès. Amo i registi degli anni Trenta, Julien Duvivier, la trilogia marsigliese di Marcel Pagnol, i film di Jean Grémillon, e poi Jacques Tati, Jean-Pierre Melville, i cineasti della Nouvelle Vague, Truffaut, Louis Malle, Godard».
Qual è il suo rapporto con il cinema italiano?
«Devo dire che la primissima ispirazione alla base di The French Dispatch è proprio un’opera italiana, L’oro di Napoli di Vittorio De Sica. Quando l’ho visto per la prima volta ho pensato che avrei voluto fare un film costruito così, come una collezione di piccole storie diverse. Una tecnica molto praticata in Italia, anche da altri autori, parlo di Fellini, Visconti, Pasolini. Mi piacerebbe moltissimo poter tornare a girare nel vostro Paese, come è già accaduto quando ho fatto Le avventure di Steve Zissou, vorrei tornare a Cinecittà, e sono certo che, molto presto, ci riuscirò».
È già pronto il suo prossimo film?
«Sì, ho finito due settimane fa di girare in Spagna, anche se la storia è ambientata negli Stati Uniti. È stata un’esperienza molto divertente. Nella troupe c’era una costumista italiana, un burattinaio inglese, un indiano, insomma ogni volta c’è un insieme di provenienze diverse e questo rende tutto molto istruttivo. Le collaborazioni internazionali sono sempre utili, permettono di migliorare le proprie tecniche». —