La Stampa, 7 novembre 2021
Domani, il plenum del partito comunista cinese
Xi Jinping, il grande assente del G20 e di Cop26. Non lascia la Cina da gennaio 2020, e la pandemia non è l’unica ragione. Con il plenum che si apre domani e che per quattro giorni riunirà a porte chiuse il Comitato centrale, la crème del Partito comunista cinese, Xi prepara il colpo di scena che consoliderà la sua posizione come diretto successore di Mao Zedong e Deng Xiaoping. Per la terza volta in cent’anni, il Pcc discuterà – e quasi certamente ratificherà – una «risoluzione storica». La prima, nel 1945, aveva fatto piazza pulita di chi dissentiva dalla visione politica del Grande Timoniere quattro anni prima della fondazione della Repubblica popolare. La seconda, nel 1981, aveva spianato la strada alle politiche di apertura e riforme dell’architetto della nuova Cina con un giudizio senz’appello sull’operato di Mao: era stato «per il 70 percento giusto e per il 30 per cento sbagliato». Si criticava ufficialmente il leader per permettere al Partito di sopravvivere, si condannava il culto della personalità e si promuoveva una grigia dirigenza collettiva che si facesse garante della crescita organica di politica, economia e società. «Non importa se il gatto è bianco o nero», era lo slogan di quei tempi. «L’importante è che acchiappi i topi». Ma i tempi sono cambiati ed è stato da subito chiaro che il ruolo di “primus inter pares” a Xi Jinping calzava stretto.Da quando si è insediato nel 2012, i suoi sforzi sono stati volti a ristabilire il suo controllo sul Partito e quello del Partito sullo Stato. Mettendo il suo pensiero in Costituzione si è assicurato la continuità diretta con i padri fondatori ed eliminando l’obbligo dei due mandati si è aperto la strada per governare a vita. All’apice della seconda economia mondiale, Xi Jinping ha promosso con forza la fedeltà incondizionata al leader, lo studio del suo pensiero e la ripetizione degli slogan, offendendo l’intelligenza di una classe media sempre più raffinata e dei suoi funzionari più navigati. È lui l’uomo forte, è hexin, «cuore e nucleo» della Repubblica popolare, vertice di una complessa piramide politica in cui Stato e Partito si sovrappongono mantenendo i confini dell’impero che fu.Xi vuole restaurare la storica centralità geopolitica della Cina e scuotere l’ordine globale costruito attorno alla leadership statunitense. Ma se oggi il Paese è certamente più integrato, ricco e assertivo di ieri, le disuguaglianze e le contraddizioni aumentano, creando lacerazioni sempre più difficilmente componibili.Nelle stanze segrete di Zhongnanhai, il Cremlino cinese, Xi Jinping deve guardarsi dai nemici politici e insieme gestire una nazione che trema sotto i colpi di una profonda crisi del settore immobiliare, del razionamento energetico e di una sempre più diffusa e potente critica delle «democrazie occidentali». Come se non bastasse, la risalita del numero dei contagi mette in seria discussione la politica “tolleranza zero” sul Covid, che Xi Jinping aveva trasformato nel fiore all’occhiello del suo governo autoritario.Il leader si è messo sulla difensiva. E così il Paese che governa. Le politiche della «prosperità comune» e della «doppia circolazione» segnano la strada più cara alle autocrazie: l’autarchia. Sempre di più si cercherà di incanalare l’innovazione del privato in un percorso economico disegnato dall’alto e portato avanti dalle grandi aziende pubbliche. Sempre più si preferiranno i marchi nazionali, sempre meno gli stranieri saranno benvenuti. Nel frattempo le purghe all’interno del Partito, lotta alla corruzione per la propaganda, si sono estese alle forze armate, al mondo della cultura, degli affari e delle grandi aziende.Quello che si apre domani sarà l’ultimo importante appuntamento politico prima del Congresso del 2022, quello che, se tutto va secondo i (suoi) piani, consacrerà Xi Jinping alla leadership perpetua. Gli osservatori della politica cinese saranno attenti a qualsiasi tenue segnale di opposizione perché potrebbe essere la spia di lotte intestine e di un esito incerto del piano del comandante in capo. E ce ne sarebbe ben donde. Quando nel 2017 si è assicurato il secondo mandato, il presidente ha incantato il popolo cinese con un crescendo di promesse che riscaldava i cuori: avanzamento scientifico e tecnologico, educazione più equa, lavori più qualificati, uno stato sociale e una sanità più giusta. Il controllo e il rifiuto del dissenso erano propedeutici al «rinascimento cinese», ma niente sembra andare in quella direzione. Il giro di vite sulle Big Tech, il divieto dei corsi extracurriculari, il calo della crescita economica, l’aumento della disoccupazione giovanile e i prezzi proibitivi degli alloggi e delle cure fanno dubitare che il Paese continui sulla strada concordata.Un anno è lungo e, come abbiamo imparato dieci anni fa, il Partito non è certo estraneo a fazioni e a sanguinose guerre intestine. L’ascesa di Xi Jinping al potere è stata costellata di fughe di notizie, storie di spionaggio, assassinii, assenze strategiche e scandali politici che hanno portato a cancellare dallo spazio e dalla memoria pubblica Bo Xilai, quello che all’epoca era considerato il suo più potente rivale. Prima di essere condannato all’ergastolo, tra l’altro, Bo fu accusato politicamente di coltivare nostalgie maoiste e di voler tornare a un concetto di leadership personalistica che avrebbe favorito il ritorno a un culto della personalità. Oggi Xi Jinping ha ridotto i membri del Partito a «schiavi della sua volontà», ma chi dieci anni fa l’ha aiutato a disfarsi dell’antagonista potrebbe esserne deluso. Da domani il leader farà bene a guardarsi le spalle perché, come Mao ci ha insegnato, «una sola scintilla può dar fuoco a tutta la prateria». —