La Stampa, 7 novembre 2021
Come farsi uccidere a Squid game per gioco. Un reportage
«Come si gioca?». «Quante sono le prove che dovremo superare?». «Hai già visto tutte le puntate?». Siamo una cinquantina di adulti fra i 16 e i 50 anni, singoli, coppie o gruppi di amici, tutti greenpassati. Che cosa ci ha spinto, alle 20 di un venerdì sera di novembre, dopo una giornata di lavoro o di studio, ad attendere per mezz’ora davanti a un capannone dell’area industriale di Settimo Milanese, riscaldati da una minuscola lampada a infrarossi, l’uscita di un tizio vestito di arancione – il volto coperto da una maschera – che ci invita a entrare alzando la voce e rintuzzando chi si lascia sfuggire una risatina con il mitra (finto) che tiene ben stretto fra le mani?La risposta non può che essere Squid Game, la serie tv del momento targata Netflix, un cocktail di successo (di certo in termini commerciali e di marketing) che miscela adrenalina, horror, pillole di esistenzialismo e soft-power coreano. La presunta fascinazione per la violenza, che nelle scorse settimane ha suscitato molte polemiche dopo alcuni brutti episodi di emulazione e pestaggi fra under 14 (a cui la serie in teoria sarebbe vietata), non c’entra nulla. «I genitori devono controllare i ragazzini. Non accusare Squid Game – dicono convinte Giulia Fiore e Ludovica Franzetti, 18 anni, che frequentano l’ultimo anno del liceo di Scienze Umane -. Noi siamo qui per giocare. Punto». Inutile anche scomodare il filosofo Byung-Chul Han e le sue riflessioni sulla «gamificazione dell’esistente» o sulla «manipolazione infantile della morte attraverso il gioco», come fa la docente di Semiotica del linguaggio Bianca Terracciano analizzando le ragioni di questo fenomeno globale. Mentre indossiamo sopra la giacca la nostra brava T-shirt bianca con stampato sopra un numero verde – «Tranquilli, sono state sanificate» -, una specie di maschera da sci per proteggere gli occhi e i tre braccialetti di carta fucsia che corrispondono alle tre vite a disposizione, ci guardiamo in faccia e capiamo che siamo qui tutti per lo stesso motivo: un paio d’ore di svago diverse dalla solita birra. E che tutto ciò che c’è di misterioso e di non detto non è altro che il vero catalizzatore del divertimento. Il resto lo fanno la voglia di immedesimarci nei personaggi che ci hanno tenuti svegli per qualche ora di troppo durante le ultime notti, la scenografia e qualche effetto speciale.L’organizzazione è gestita da Enigma Room, una società specializzata in team building aziendali, che appena ha fiutato il business ha costruito il format in tempi record e ha cominciato a proporre l’evento sui social. Partecipare costa 25 euro e per l’unico vincitore non c’è il montepremi milionario della serie ma un biglietto omaggio per un’escape room, ovvero un altro gioco di ruolo. «Alle prime partite c’erano trenta persone, ora viaggiamo sulle cinquanta a giocata – spiega Stefano Castelnuovo -. Non vogliamo terrorizzare nessuno, solo far divertire la gente. Qualche genitore voleva venire con bambini di 8 anni ma gli abbiamo spiegato che qui non possono entrare nemmeno come spettatori».Dentro il capannone è tutto buio e come sottofondo c’è il rumore sordo del tamburo che introduce Way back then, la didascalica, infantile e angosciosa colonna sonora scritta da Jung Jae-il. «Seguite la fila» intimano le guardie. Quando si accendono le luci compare il Frontman, l’uomo vestito di nero che guida la serata. «Siete qui per compiacere il Vip, per lui è stato organizzato tutto questo e per lui giocate – spiega con la voce modificata da un sintetizzatore vocale, indicando un tizio abbarbicato su una torretta con una maschera veneziana da medico della peste -.Non è ammesso l’uso della violenza tranne quando lo richiede il gioco. Non si imbroglia. Le guardie sono realmente armate e hanno loro diritto di decidere sul gioco. Niente discussioni».Poi cominciano le prove, alcune ispirate a quelle della serie, altre inventate dagli organizzatori: un, due, tre stella con un’attrice vestita proprio come la bambola robot della prima puntata; il tiro alla fune, con i giocatori che si dividono fra chi conosce la tecnica dell’anziano Oh Il-nam («Oh, quello del quarto episodio») e chi ha solo qualche vaga reminiscenza degli infiniti pomeriggi estivi all’oratorio; il gioco delle biglie introdotto da un walzer sulle note del «Bel Danubio blu» che però, visto il contesto, a tutto fa pensare meno che ai Wiener Philharmoniker. Seguono una caccia al tesoro in cui bisogna evitare i colpi di due cecchini che sparano con le armi da soft-air, una sfida in cui dobbiamo improvvisarci arcieri colpendo gli altri concorrenti con una freccia a ventosa (inutile negarlo: è divertente) e due prove da poligono di tiro per principianti.«Non mi aspettavo di provare le stesse emozioni della serie, però mi sto ricredendo: è stato abbastanza adrenalinico», sorride dopo aver perso il suo ultimo braccialetto fucsia Giulia Bucella, graphic designer di 30 anni. «Siamo venuti apposta da Lodi con altri otto amici e non ci siamo pentiti – confermano Stefano Ramaioli e Simone Taccola, ventenni -. Giocare è un po’ come prolungare il piacere di guardare la serie». Alle 22.30, mentre il vincitore Alfredo Frezza, ammette di non aver visto nemmeno una puntata di Squid Game – «Mi ha portato qui mio fratello. Lavoro nell’azienda di famiglia e ne ho altre in arretrato da vedere prima» – fuori dal capannone arrivano nuovi giocatori.Tolte la T-shirt, la maschera da sci e la mascherina anti-Covid, tornando verso l’auto e mostrando agli altri la propria vera faccia, la cosa più dura è confessare di essere stato la seconda vittima di un, due, tre stella. —