il Giornale, 7 novembre 2021
Il libro di Fini è un trattato sulla storia recente, dalla politica al costume
L eggendo Il giornalismo fatto in pezzi (Marsilio, pagg. 828, euro 28) di Massimo Fini, appare chiaro che l’Italia non è affatto entrata nel nuovo millennio, come retoricamente sentiamo dire. Le inchieste di Fini, una vita nei giornali, oggi al Fatto, mettono il dito nelle piaghe eterne dell’espressione geografica che continuiamo, per ostinazione o amore, a definire Italia e fanno uno stranissimo effetto, tra il disagio e la paura: al netto di nomi e date sono cronache precise del nostro presente.
Ci sono reportage e reportage, inchieste e inchieste, giornalisti e giornalisti: in questo volume antologico abbiamo il meglio di tutte e tre le categorie. Articoli approfonditi, polifonia di voci, talento (e visione culturale) dell’autore. Risultato: un trattato, niente di meno, sulla storia recente, dalla politica al costume.
Pronti, via. Il primo servizio, pubblicato in origine nel 1980, ci fa capire che i cinghiali e le voragini non sono un’esclusiva della Roma di Virginia Raggi. Roma è la «capitale sbagliata», scelta per il suo valore simbolico, ovvio, ma senza tenere conto di alcuni fattori fondamentali: città senza industria e assistita, tutta risolta nella burocrazia, Roma è il motore «dell’enorme espansione della mano pubblica ed assistenzialista a danno di quella privata e produttiva» (così Paolo Grassi, ex presidente della Rai, interpellato all’epoca da Fini). La Democrazia cristiana è la principale indiziata dello sfacelo ma a Roma perfino i comunisti non sono più comunisti: «Basta entrare in un salotto romano e vedervi prestigiosi uomini politici comunisti o del Manifesto variamente intrecciati con palazzinari notoriamente corrotti e corruttori, mafiosi d’alto bordo, giornalisti dall’aria di manutengoli, direttori democristiani di reti televisive, cocottes, scrittorucoli da terza pagina del Corriere della Sera, fotografi alla moda, pubblicitari e parassiti di tutte le risme». Paolo Sorrentino, circa quarant’anni dopo, ci farà un film: La grande bellezza.
Se da Roma passiamo a Milano, troviamo subito un’altra frase scolpita nella pietra: «Nell’epoca delle multinazionali, tipo Fiat, e del capitalismo di Stato non c’è più posto per la piccola e media industria e quindi per Milano». Fini lo scrive nel 1977, oggi, nel 2021, assistiamo ai momenti finali del processo. Dopo essere passati per le finte liberalizzazioni di Bersani, che hanno spalancato le porte ai grandissimi investitori e le hanno sbattute in faccia a tutti gli altri, è arrivata la pandemia a completare l’opera: non solo l’industria ma anche i piccoli commercianti saranno cacciati fuori dal mercato. Tiriamo le conseguenze. Il mercato globale ha una sola regola: l’efficienza. Al mercato servono consumatori uno identico all’altro, cittadini che desiderano le stesse cose, da prodursi in serie, con redditizie economie di scala. Nel nuovo mondo non c’è spazio per differenze, né tradizionali o religiose né sessuali. Dunque ogni reale differenza sarà cancellata, in nome e con la scusa della tolleranza. Al mercato serve velocità: istituzioni come famiglia e Chiesa sono obsolete e saranno abbandonate o svuotate di senso proprio come l’industria e la politica tradizionale. Fini spesso va a braccetto con Pier Paolo Pasolini, non a caso protagonista assoluto delle pagine finali di Il giornalismo fatto in pezzi, con interviste che fanno cadere la mandibola a terra, per la loro estrema lucidità.
Tra le pagine migliori, sono da segnalare quelle dedicate al capitalismo italiano e ai suoi protagonisti. Chissà quanti amici (ehm) si è fatto Fini vergando ritratti spietati di Carlo De Benedetti, di Gianni e Umberto Agnelli, della dinastia Olivetti... C’è poi Angelo Rizzoli e si tocca di sfuggita Silvio Berlusconi (per limiti cronologici, si arriva all’incirca all’inizio di Mani pulite).
Carlo De Benedetti: dirigente spregiudicato, abilissimo finanziere, doppiogiochista attento all’immagine, «ha l’aria di sapere ciò che vuole e che va dritto allo scopo, ma per avere ciò che vuole è disposto a tutto».
Gianni Agnelli: freddo e cinico, dunque simpatico, fautore della trasformazione della Fiat in una bizzarra multinazionale dalle fondamenta fragili, infallibile nel mettere in conto allo Stato gli eventuali momenti di difficoltà.
Adriano Olivetti: sognatore mai uscito dall’ambiguità, fare impresa o fare cultura d’impresa? Teorico del «nessuno è insostituibile», lasciò la sua industria divisa in gruppi di potere conflittuali. In fondo un uomo insostituibile c’era, era Adriano Olivetti.
Il capitalismo italiano è un capitalismo di Stato, quindi assistito, quindi intrecciato indissolubilmente al potere politico. Ecco, siamo arrivati ad altre pagine illuminanti, quelle dedicate allo straripare dei partiti politici che hanno occupato tutto l’occupabile in mancanza di regole liberali e di una solida burocrazia fedele allo Stato, non al ministro di turno. Leggete questo affondo datato 1983: «Il sistema, del tutto estraneo ai principi di uno Stato liberale, di coinvolgere sempre più forze nella gestione del potere, avrà il suo acme con la cosiddetta unità nazionale, che darà il suggello definitivo alla logica spartitoria». Guardatevi attorno, e se un brivido vi corre lungo la schiena, beh, non sorprendetevi.
Nel libro c’è molto altro: grandi giornalisti, fatti di costume, cronaca culturale e anche tanti reportage dall’estero. Insomma, Il giornalismo fatto in pezzi è una miniera. Al lettore, il piacere di raccogliere le pepite che preferisce.