il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2021
Intervista a Paola Quattrini
La chiamiamo maestro?
Chi?
Lei.
Macché! Sono Paola.
Maestro proprio no.
In realtà mi sono anche sentita maestro; pure adesso, con Paola Barale: lei mi chiama così.
È severa?
Cerco di non esserlo, perché in passato sono stata assillante con mia figlia e da una parte me ne pento; a un certo punto Selvaggia (la figlia, ndr) ha sbottato: “Basta, non voglio più lavorare con te: me sfinisci”.
Aveva ragione?
Ogni volta che usciva di scena le segnalavo qualcosa; ora mi doso per non rompere le amicizie. (Paola Quattrini si ferma, sorride, guarda attorno a sé. “Quanto sto bene qui”. Il suo “qui” è il teatro Manzoni di Roma, ma il “qui” è il teatro in generale, luogo di anima e corpo, dove si sente a casa, dove ci riceve seduta in platea, dove le poltrone rosse diventano il suo salotto, dove si muove e si contorce rivelando una flessibilità non riconducibile ad alcuna età successiva all’infanzia; dove parla di leoni regalati, di responsabilità troppo grandi per una bambina, di nudo, di amore, di arte. Di palco: “Ho imparato dai grandi, quando il teatro era un’arte che si praticava seriamente e guai a mancare di rispetto: se sento fischiettare mi dà fastidio, niente cappello e via così”).
E se qualcuno in sala ha il cellulare acceso?
Sono capace di fermarmi, non mi spaventa nulla.
Niente.
In palcoscenico no.
E si fa intervistare poco prima di andare in scena.
A me bastano quindici minuti per concentrarmi: mi siedo su quella panchina (ne indica una sul palco), con il sipario chiuso, per sentire il brusio del pubblico. È una droga. E da lì capisco come sarà la serata, anzi posso decifrare l’età delle persone.
Il brusio cambia da città in città?
Assolutamente.
Com’è a Napoli?
Forte prima, ma durante lo spettacolo non ridono mai: una tragedia.
Sono esigenti.
Amano solo le cose napoletane; (pausa) ricordo Bramieri e Dorelli provatissimi per assenza di partecipazione emotiva.
A Milano.
Affettuosi; in Sicilia dipende dalle zone dell’isola.
A parte i “15 minuti”, il rito prima di salire sul palco?
Il segno della croce e un pensiero a mia sorella (morta giovanissima); sono credente, ma al di là di questo credo che l’amore non sia sprecato, quando hai amato qualcuno resta il sentimento… Poi non sono una persona che merita… (silenzio) e l’invidia c’è sempre.
Tra teatranti?
Eh… vado in giro con il sale nella borsa (la apre, non lo trova, quasi si agita). Dov’è? Eccolo. (È in una bustina di plastica azzurra).
Ogni quanto lo cambia?
Per ora resiste (cambia posizione, intreccia le gambe).
È plastica nei movimenti.
Dedico molto tempo alla ginnastica.
Bella donna.
Grazie, anche se all’inizio ne soffrivo: mi definivano solo “bella” mentre io desideravo un “brava”, poi hanno iniziato con il “brava” senza più il “bella”. E io: “Ma tutte e due le cose insieme, non se pò fa’?”
Quando hanno iniziato con il “brava”?
Verso i 35 anni, ma a 20 ero già primadonna.
Veterana subito.
Sono nata attrice. Lo sento nell’orecchio, conosco i tempi teatrali.
A quattro anni il debutto.
Alcune vicende non so se le ricordo da me o perché le hanno raccontate; poi tendo a cancellare il passato, tendo al presente (abbassa la voce e diventa molto seria) e al futuro; ho questa espressione per l’incertezza di quanto ne ho davanti, ma non ci voglio pensare.
Ha dichiarato di aver perso l’adolescenza.
È così: sentivo il peso della famiglia, la necessità di lavorare per mantenere mia madre e le mie tre sorelle. Papà è morto quando avevo dieci anni.
Tutto su di lei.
Mamma non lavorava, io ero la più piccola.
Bella responsabilità.
Ne ero infastidita; ah, tra i rimpianti aggiungo quello di aver studiato poco.
Cosa avrebbe studiato?
Magari Psicologia; anche se lo faccio in teatro; mi piace il sapere e soffro il non sapere: la mia scuola è stata il palcoscenico, accanto ai geni, persone che mi hanno insegnato più che a casa.
Tipo?
Gianni Santuccio mi ha spiegato l’uso delle posate a tavola, non solo coltello e forchetta: vengo da una famiglia modesta e rischiavo di trovarmi a disagio.
Ha vissuto il tempo delle mezze porzioni al ristorante?
“Mezze porzioni abbondanti”, era la tipica richiesta di noi attori; da ragazzina amavo più gli alberghi, li ho sempre vissuti come casa mia.
Viaggiava pesante o leggera?
Un tempo molto pesante: si girava con i bauli, ora giusto con un trolley piccolo. (Pausa, seria) Chi ha il piede grande è un po’ fregato: le scarpe sono la parte più ingombrante; (sorride) Panelli, nel suo baule da camerino, teneva tutto il necessario per dipingere; io le foto, l’attrezzatura per la ginnastica, le tovagliette belle; poi c’era il baule delle scarpe e delle borse e quello della sartoria.
E ora?
Non ce stanno più i soldi: un tempo ti venivano a prendere a casa, oggi è già tanto se te portano la valigia.
Ama ancora gli alberghi?
Molto. Ho un libretto dove appunto quelli dove ho dormito e mi piace tornarci.
Ama il post-spettacolo?
Preferisco scappare.
Non crede ai complimenti del post?
Sì, però è meglio non chiedere “che te ne pare?”. Una volta ci sono cascata, la risposta è stata: “Be’, insomma”. E dentro di me ho pensato: “Vaffanculo”.
Bluffa quando va a vedere i colleghi?
Quando lo spettacolo è brutto è una tragedia: uno passa il tempo a cercare la frase giusta per non offendere.
Soluzione?
Evito il camerino, me ne vado.
Lavia sostiene di amare il teatro per la cena post.
Non mi piace tanto mangiare.
È magra.
Per essere in forma non devi mangia’ la sera: lo spettacolo te rovina.
Si scoccia con gli attori non all’altezza?
Eh.
Alla sua altezza ce ne sono pochi.
Appunto, allora dovrei sta’ sempre scocciata. Lasciamo perdere.
Per carità.
C’è chi si dà un sacco di arie e non ha spessore: mi irrito; capita pure con i ragazzi appena usciti dall’Accademia, hanno una spocchia pazzesca.
L’Accademia è fondamentale?
Non ci sono andata.
È una deminutio?
In un certo ambiente pseudo-intellettuale di persone che se la tirano, mi definiscono attrice di “commedia” con modi sprezzanti, quando mi dedico anche alla commedia, e non è semplice: è più difficile strappare una risata di una lacrima…
Lo sosteneva Totò.
Una sera Pietro Garinei, il più grande di tutti, si incavolò con me: gli avevo comunicato la decisione di recitare in un dramma di Dostoevskij: “Perché? Sei una delle poche che sa far ridere”. “Ne ho bisogno per crescere”. Pietro è la persona che mi manca di più.
Anni fa ha detto lo stesso di Walter Chiari.
Di lui mi manca la personalità: è stato un bellissimo incontro, un’emozione. Mi piaceva pure fisicamente, vederlo mi turbava, specialmente quando restava in canottiera.
E lui con lei…
Sapeva corteggiare in maniera maschile. Però soffrivo i suoi ritardi, cozzavano con la mia disciplina teatrale.
Inaffidabile.
Ha perso un sacco di spettacoli, ogni giorno stavamo in ansia.
De Filippo proibiva i rapporti in compagnia.
Secondo le vecchie dicerie, un’attrice non avrebbe dovuto neanche avere famiglia, niente svaghi o uscite extra.
Invece lei…
(S’illumina) Di svaghi ne ho avuti tanti e seguito ancora a prendermeli.
Il lockdown senza teatro.
In quel periodo ho lavorato tantissimo: mi sono occupata di un corto cinematografico e ho fatto recitare il condominio; con le signore ci incontravamo in cortile e inventavo cose.
Com’erano?
Negate.
Però.
Ci siamo divertiti: non c’è niente di meglio che vivere altre vite, togliersi i propri panni, vestire quelli altrui e concedersi quello che normalmente i nostri limiti renderebbero impossibile.
Quando è tornata sul palco?
Che bello! Avevo una carica pazzesca.
Si è commossa?
Piango sempre; comunque il teatro mi piace più oggi.
È più sicura.
Ammetto che è il mio più grande amore; mi spiace per tutte le persone che ho amato.
Magari già lo sanno.
Credo di sì.
E spesso ci si fidanza tra attori.
Io no. Non mi piacciono tutti, non amo i vanesi, non gradisco l’uomo che si piazza lì per truccarsi: pochi attori sanno scindere il ruolo da se stessi, restano con il dorso della mano sulla fronte (e lo imita). Amo l’uomo maschio.
È vanesia?
Sennò non farei l’attrice.
Diventata o sempre stata?
Credo indole: da ragazzina mi mettevo al centro e creavo storie.
Ha le locandine sulle pareti in casa?
Ora sono in garage.
Che hanno combinato?
Una sera, dopo una tournée, sono rientrata e ho staccato tutto, compresa la moquette: desideravo il vuoto.
In garage ci sono pure le copertine di Playboy?
Lì sono stupenda.
Assolutamente.
Sono nascoste per mia nipote, poi ogni tanto le guardo e penso: che bella gnocca. Mica le rinnego.
Ci mancherebbe.
Mi sono anche spogliata in scena, con tanto di scandalo: a Brindisi ci hanno tirato i pomodori; ma se la scena lo richiede, non c’è nulla di male.
E con Playboy?
Ho accettato perché mi piaceva il fotografo, per vanità e divertimento; sul set c’era un ragazzo di colore che doveva strapparmi i vestiti: era agitato, tremava. E io: “Dài, e dài!”.
A casa cosa dissero?
Non erano contenti. Non se ne parlava. Ma ho sempre agito di testa mia.
Indipendente.
Mi sono sposata a 18 anni per uscire di casa: mio marito era il marchese Gerini e mi ha regalato un cucciolo di leone. Ci andavo in giro.
Comodo.
Lo mettevo sotto la pelliccia: alcuni si sbagliavano, lo scambiavano per un gattone e provavano ad accarezzarlo.
Quanto lo ha tenuto?
Dopo un mese sono partita in tournée e l’ho lasciato a mia suocera; (ride) un giorno venne a casa una giornalista, purtroppo dimenticai il leoncino in salotto e trovai la poverina spiaccicata sulla parete, pallida. Non riusciva a fiatare.
Lei in una famiglia aristocratica.
Una tragedia. Ho ancora nella testa il casino della mezzaluna da insalata: ho pianto due giorni per la vergogna.
Traduciamo.
Misi l’insalata nel piatto, accanto alla carne, invece che nella mezzaluna. Ora a casa ne ho un set.
Di che?
Di mezzelune!
Quanto è durato il matrimonio.
Sei mesi e sono scappata.
Come mai?
Mi portò in una villa abbandonata, vicino Firenze: sotto terra c’era una cappella piena di ragnatele e lì, con tono aulico, mi prospettò l’eternità: “Qui riposeremo”. E io: “Non mi piace”. È finito tutto.
Bel coraggio.
Nella vita non mi è andato tutto sempre bene, ho avuto grandi problemi economici.
Quando?
Dopo la separazione; nel nostro mestiere ci sono sempre alti e bassi, sempre in attesa di una telefonata.
La maggior parte degli attori soffre di depressione.
Non so cosa sia.
Davanti allo specchio cosa vede?
Mi guardo pochissimo, giusto prima di entrare in scena; anzi mi guardo quando mi amo e mi amo in camerino.
Come la trattano i colleghi?
Rido quando dopo lo spettacolo ancora mi dicono: “Ci sorprendi”. E penso: “Ma ancora me voi scopri’?”
Si scoccia.
Meriterei un teatro stabile.
Chi è lei?
Un’attrice.