Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2021
Ritratto di Fabrizio Palenzona
«La mia più grande delusione, fino al dolore, nella mia vita politica? L’ho provata quando Guido Bodrato ha lasciato la corrente di Forze Nuove. Il segretario della Dc era Benigno Zaccagnini. Era stato rapito e ucciso dalle Brigate Rosse Aldo Moro. Il leader di Forze Nuove, Carlo Donat-Cattin, propendeva per la fine dei governi del compromesso storico e della solidarietà nazionale guidati da Giulio Andreotti. Bodrato era uno dei principali collaboratori di Donat-Cattin. Era come un figlio per lui. Ma rimase con Zaccagnini, ancora convinto del dialogo strategico con il Pci di Enrico Berlinguer. Per me fu un tradimento. Dopo, abbiamo costruito una amicizia. Era, ed è, in effetti un uomo di qualità. Ma, allora, l’ho quasi odiato».
Alla locanda dei Narcisi di Pozzolo Formigaro – provincia di Alessandria, da sempre sul confine fra la pianura, le colline e il mare, per secoli contrada di commercianti e di mediatori, di contrabbandieri e di banditi – quando Fabrizio Palenzona fa risuonare nomi di quarant’anni fa e soprattutto quando pronuncia le parole «tradimento», «odio» e «amicizia», il presente si rompe come carta velina ed emerge la sua natura di homo totus politicus.
All’inizio di un pranzo a base di tartufi raccolti sulle colline del Tortonese e del Gavi, attraverso il racconto di sé compie un’analisi della identità democristiana che, nei primi anni ’90, verrà disossata dal coltello e dal batticarne della magistratura e dell’opinione pubblica: «Mia madre Delmira aveva il diploma da maestra ed era di famiglia socialista. Mio padre Remo, figlio e nipote di fornai, ha fatto il cancelliere di prefettura a Castel Fiorentino prima e a Novi Ligure e a Tortona poi. Era stato in seminario, ma non aveva avuto la vocazione a farsi prete, ha optato per otto anni di guerra... Io sono democristiano e lo sarò sempre: iscrizione all’Acli e tessera della Dc a 17 anni. Nel 1975, a 22 anni, sono stato nominato vicesegretario della Dc di Tortona. Seguivo gli autotrasportatori, 800 padroncini soltanto qui. Nel 1987 sono stato eletto sindaco di Tortona e nel 1995 sono diventato il primo presidente della Provincia di Alessandria eletto direttamente dal popolo. Con una mia fideiussione personale ristrutturammo la sede della Dc di via Matteo Bandello, inaugurata nel 1981 dall’allora ministro Donat-Cattin, di fronte a quello che, prima della legge Merlin, era il casino di Tortona. Mani Pulite ha sradicato la Prima repubblica, ma non ha estirpato la corruzione, ha distrutto le uniche università della classe dirigente politica che, nel bene e nel male, erano i partiti».
La sua gerarchia interiore è invisibile, ma nitida. «La realtà – provo io ad interpretare, mentre la locandiera Enza Narcisi ci versa il primo bicchiere di barolo del 2011 della cantina di Paolo Conterno – è che a lei, dal punto strettamente personale, interessa molto meno quello che ha fatto ai vertici della finanza e dell’economia negli ultimi vent’anni rispetto a quello che ha fatto, in una posizione più modesta e semplice, da militante e da amministratore locale della Dc». Palenzona, tenendo gli occhi fissi dietro alle lenti degli occhiali e muovendo invece il corpo come se fosse un bambino a cui qualcuno ha detto qualcosa di emotivo che nessuno gli dice mai, quasi sospira: «Sì, è così». E aggiunge: «La politica è la cosa più importante. Secondo Paolo VI è la più alta forma di carità».
Enza porta in tavola salame crudo, pane e focaccia fatta in casa. Quindi, un uovo croccante con fonduta di Montebore, un formaggio della Val Curone e della Val Borbera, porcini e tartufi: «Arrivano dai boschi di Castellania, il paese di Fausto Coppi», spiega la locandiera. È come se Palenzona avesse vissuto una vita al contrario: la vita adulta da giovane – nel cuore del Novecento – e poi, invecchiando, la vita dei ragazzi, se non dei ragazzini, nel vuoto creatosi a partire dagli anni ’90: anche il divertimento che traspare dal racconto della scena e del retroscena degli ultimi vent’anni di vita finanziaria italiana (da UniCredit a Mediobanca, da Aeroporti di Roma a Impregilo, da Gemina a Prelios) ha qualcosa di infantile, come se le cose serie – da adulti – fossero già state consegnate a un altro tempo.
In tavola arrivano i tagliolini ai trentatré tuorli: trentatré tuorli ogni chilo di farina. Con, sopra, una abbondante grattata di tartufi: «Enza, aggiungi, aggiungi», dice. «Nel 1993 e nel 1994 mi sentivo un apolide della politica. Nel 1995 con il Partito Popolare vengo appunto eletto presidente della Provincia di Alessandria. Ci spetta un posto nel consiglio della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino. Lo stava occupando il ragioniere capo della Provincia. Quando questi dà le dimissioni per ragioni personali, mi dice che, per un nodo burocratico, avrei dovuto farlo io. Giusto qualche settimana. Poi avrei nominato il mio successore. Per questa ragione, firmo l’irrituale decreto di nomina con cui Fabrizio Palenzona nomina Fabrizio Palenzona, firmato Fabrizio Palenzona», ride. E poi aggiunge: «Per me la cosa era finita lì. A settembre, dovevo nominare il nostro rappresentante. È estate. Come una incombenza fra le tante, vado a Torino alla mia prima riunione, che nelle mie intenzioni sarebbe dovuta essere anche l’ultima. A un certo punto, sento che vengono erogati 2,85 miliardi di lire. Rimango di sasso. Chiedo a un mio vicino di sedia se ho capito bene e lui mi fa: “Sì, questo mese sono un po’ di più, perché ad agosto non ci riuniamo”. Non ci posso credere. Esco e domando ai miei funzionari quante, di queste erogazioni, sono arrivate negli ultimi anni in provincia di Alessandria: lo 0,1 per cento. Faccio due conti: nel consiglio siamo in 15. Ad Alessandria, quindi, spetta il 7% dell’erogato. Dico ai miei: “per dare 500mila lire alla pro-loco, diventiamo matti…a questo punto, nella fondazione resto io!”. Un giorno, da Sotheby’s è messo all’asta un trittico del pittore cinquecentesco di Castelnuovo Scrivia Franceschino da Boxilio, che all’origine era proprio nell’oratorio della Trinità di Pozzolo Formigaro. Chiedo alla Fondazione Crt di acquistarlo. Perdo: quattordici voti contro e solo il mio a favore. Mi arrabbio tantissimo. Esco dalla votazione e vado da Mercedes Bresso, presidente della Provincia di Torino e dell’Unione Province Piemontesi, di cui io ero vicario. Le chiedo la delega alle fondazioni. Lei me la dà. Torno in consiglio alla Fondazione Crt. E vinco: otto voti a sette. Il trittico si compra e si riequilibra il giusto peso tra Torino e il resto del territorio».
Il barolo di Paolo Conterno scalda. Viene servito un pollo alla Marengo con porcini, uovo cremoso e gamberi di fiume. In Palenzona l’ascesa à la Balzac del provinciale sbarcato non a Parigi ma a Torino, a Milano (dove, per esempio, sviluppa un intenso rapporto personale con Vincenzo Maranghi di Mediobanca) e nella Roma del Vaticano è distillata e resa più sottile dalla virtù cattolica della pazienza e dell’inglobamento di chi ti disprezza, forma sublime di rivalsa sulle umiliazioni subite: «Io e mia moglie Alla Kouchnerova abbiamo due figlie, Tatiana ed Emma. Una mattina mi ritrovo in aereo seduto a fianco di una persona collega in un Cda. Le chiedo un consiglio per mia figlia Tatiana, che vuole andare a studiare all’estero. Questa persona mi gela: “Ma come? Ma no. Tua figlia deve rimanere in Italia”. Capisco subito che, a questa persona, mi creda, una persona per benissimo, che appartiene alla aristocrazia progressista, io faccio ribrezzo: sono un politico, per di più democristiano, di provincia, ignaro delle lingue, con una semplice laurea in legge a Pavia. Nel 1979, sono stato perfino segretario nazionale dei cisternisti della Fai, la Federazione autotrasportatori italiani: poco chic, per i radical chic. Poi, con questa persona, una volta superati i pregiudizi, siamo diventati amici…». E, davvero, all’espressione «siamo diventati amici» un brivido di divertimento mi coglie al pensiero della borghesia di sinistra, risparmiata da Tangentopoli e poi felicemente modernizzatasi con la finanza nei Cda delle società quotate.
Per dessert Enza porta in tavola una specialità della locanda, la Gianduiella: un lievitato con gianduia, nocciole e caramello salato. La fisiologia democristiana di Palenzona è senza sottomissioni, innaturali per chi è stato generato dalla sinistra democristiana dei Donat-Cattin e dei Giovanni Marcora: «Nel 1996 incontro Luigi Fausti, presidente della Comit, che ha acquisito la Biverbanca, unione tra le casse di risparmio di Biella e Vercelli, e vuole comprarsi pure la Cassa di Risparmio di Torino. Entro nella stanza favorevole all’operazione. Soltanto che lui mi dice: “Io faccio il presidente, tu fai il vicepresidente. Ci sono 500 posti da distribuire”. Mi rendo conto che, in quella stanza qualcosa mi sfuggiva, non tanto e non solo perché era lui a dare le carte, ma per la sensazione di essere “comprato”. Cambio idea. Optiamo così per una aggregazione più rispettosa della nostra storia e dei nostri valori: quella tra le casse di Torino, Verona e Treviso che qualche tempo dopo porterà alla nascita di UniCredit. Un grande sogno avveratosi. Fino al 2007 UniCredit ha compiuto una straordinaria cavalcata. Enrico Cuccia aveva visto giusto quando convinse Lucio Rondelli che Alessandro Profumo era l’amministratore delegato giusto. Rondelli non lo voleva. Per lui era troppo giovane, autonomo e aggressivo. Noi delle fondazioni siamo stati gli azionisti più convinti della prospettiva della banca pan-europea che, fino a quell’anno, ha funzionato alla grandissima».
L’appetito per le cose di Palenzona si nutre di ogni elemento: esercizio del potere («per me non è mai fine a se stesso», assicura) e responsabilità, desiderio di capire i fenomeni prima di orientarli, divertimento per il senso di sé proiettato sugli altri, quasi fino al compiacimento di sembrare più duro e ambiguo, pesante e pericoloso di quanto – con il suo dispensare il lievito della mediazione e il sale degli equilibri – egli non sia.
In fondo, la sua terra è impressa in lui. Il fantasma di questi boschi è l’imprendibile Giuseppe Mayno, prima seminarista e poi soldato dell’esercito di Napoleone Bonaparte, quindi alla testa di una banda di 200 briganti, impegnato a fare traffici e a fomentare la ribellione antifrancese. Questa memoria resta qui come un sottofondo noir e romanzesco: «Per noi Mayno è sempre stato un eroe. Qui a Pozzolo Formigaro ogni famiglia autoctona ha un soprannome: non si usava mai il vero cognome. Era il nostro sistema ante litteram per evitare le intercettazioni telefoniche e ambientali…», ironizza.
Prima che Pozzolo Formigaro finisse nel Regno Lombardo-Veneto, Maria Teresa d’Austria in persona definì una doppia regola: se le guardie fermavano un viandante sospetto su queste strade, appurata la sua provenienza da Pozzolo, dovevano immediatamente arrestarlo e se, invece, le persone fermate di Pozzolo erano tre o più di tre, con addosso delle armi, queste andavano immediatamente giustiziate.
Arrivano i caffè, le paste di meliga e i biscotti alle nocciole. E, lui, tira fuori l’editto dell’11 agosto 1757: «Capitando in quello Dominio alcuni di detti Abitanti armato, sarà permesso ad ognuno di ucciderlo impunemente, dovendo gli Abitanti suddetti essere considerati come nemici pubblici refrattari alla Sovranità», legge grattandosi la barba e sorridendo dietro agli occhiali Fabrizio Palenzona, qualche volta banchiere, democristiano sempre.