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 2021  novembre 06 Sabato calendario

Intervista a Bernardine Evaristo


«La mia missione è scrivere della diaspora africana». Bernardine Evaristo, 62 anni, lo ripete spesso anche perché è il credo che l’ha portata a ottenere nel 2019, prima donna di colore, il Booker Prize (parimerito con Margaret Atwood) per il romanzo Ragazza, donna, altro. Tra i suoi tanti ammiratori ci sono Obama e la prima ministra scozzese Nicola Sturgeon, una fama per nulla scontata se sei la quarta di otto figli nati da una madre inglese bianca e un padre cresciuto in Nigeria ed emigrato in Gran Bretagna negli anni Quaranta. Evaristo (il cui nome, Bernardine, ha origini brasiliane) scrive da sempre, dai tempi dei drammi per il Theatre of Black Women da lei fondato negli anni Ottanta, fino alle raccolte poetiche e i romanzi. Tra questi c’è anche Radici bionde, un ritratto satirico, e pertanto spiazzante, della schiavitù (in catene ci sono i bianchi, non i neri) uscito in Gran Bretagna nel 2008 e oggi pubblicato in Italia.
Dietro “Radici bionde” c’è un’idea geniale. In che contesto è nata?
«Volevo esplorare la tratta di schiavi attraverso l’Atlantico che è stata una parte importante sia della storia mondiale che della mia eredità personale. Non volevo, però, farlo in modo usuale, ma sperimentare, confondere le aspettative del lettore. Mi è venuta così l’idea di raccontarla a testa in giù: gli africani che fanno schiavi gli europei. Ho iniziato a scrivere e sì, mi sono resa conto che era una grande idea».
Una certa sperimentazione linguistica e formale è da sempre la sua cifra stilistica, rivelatasi appieno nella fusion fiction di “Ragazza, donna, altro”, dove storie, voci, frasi, interiorità ed esteriorità vengono fuse insieme. Come ha lavorato a questo romanzo?
«Prima di Radici bionde avevo scritto un paio di romanzi in versi, per cui questo è stato il mio primo vero romanzo in prosa. Nonostante questo, però, ho usato un linguaggio poetico, concentrato e immaginifico. Quello verso la fusion fiction è stato un percorso durato molti anni, che è partito dalla poesia ed è passato per il teatro e la prosa poetica».
Quanto è importante, per uno scrittore, avere una «missione»?
«Molto. Credo che ogni scrittore scelga di lavorare con un’area specifica della società e della vita. La diaspora africana, ovvero come gli africani si siano spostati in tutto il mondo, è quello che interessa me e per questo, nei miei libri, ne esploro presente e passato. Se ci pensa, moltissimi scrittori bianchi esplorano la “storia dei bianchi”, solo che nessuno la chiama così».
Quando ha scoperto il potere della satira?
«Proprio con questo romanzo. La satira si è presentata spontaneamente nel momento in cui ho deciso di capovolgere le nozioni di civiltà e inciviltà, il “selvaggio”, e di creare un mondo dove la norma è l’Africa e gli inferiori sono gli europei».
Il valore più alto per Doris, la protagonista, è la libertà. Può insegnarci qualcosa anche oggi?
«Doris è una donna che crede davvero nella possibilità di migliorare la propria vita. È stata fatta schiava, ma è determinata a liberarsi. Credo che questo dovrebbe essere l’imperativo morale di ogni individuo: non accettare discriminazioni, posizioni subordinate, oppressioni, ma lottare per essere trattati con uguaglianza».
Sono passati 13 anni da quando ha scritto questo libro. Crede che oggi, dopo il movimento Black Lives Matter, lo scriverebbe in un altro modo?
«Penso proprio di sì. Trattandosi di un universo inventato, e pertanto espandibile a mio piacimento, avrei di sicuro aggiunto alcuni fatti recenti che hanno avuto un forte impatto sulla società. Non avrei cambiato la storia di base, ma di sicuro avrei aggiunto un episodio che facesse riferimento all’omicidio di George Floyd e alla brutalità della polizia nei confronti dei maschi afroamericani».
Come hanno reagito i lettori neri?
«Quando è stato pubblicato in America, dove il razzismo è un argomento molto sentito, avevo paura che sarebbe stato percepito come irriverente nei confronti della storia della schiavitù. Così non è stato, e ho avuto risposte molto positive. In Gran Bretagna, i lettori neri si sono molto divertiti, l’hanno preso come una storia di “vendetta”. I lettori bianchi, invece, mi hanno detto di essere riusciti a capire di più lo schiavismo dal momento che veniva esplorato da personaggi bianchi: questo mi ha stupita molto, perché era una cosa alla quale non avrei mai pensato. Altri ancora lo hanno trovato troppo duro, sfacciato, impudente, troppo pesante da sopportare».
Quanto si è divertita a rovesciare gli stereotipi? E qual è stato quello più doloroso da affrontare?
«Mi sono divertita moltissimo, in effetti. Per esempio, a rinominare i luoghi geografici oppure quando ho scritto che la monogamia veniva considerata incivile e che la poligamia era considerata la regola. C’è stato un momento però, quando Doris viene fatta salire sulla nave che la porterà nelle piantagioni, in cui satira e cinismo hanno dovuto fare un passo indietro: troppo grandi sono stati il dolore e la crudeltà sperimentati da queste persone incatenate e stipate come sardine per mesi per poterci scherzare su».
Creare mondi alternativi è un modo di fare politica?
«Immaginare vite oltre a quella che stiamo vivendo è un forte atto creativo. Per quanto mi riguarda, creare universi alternativi, cosa che ho fatto anche nel libro del 2001 The Emperor’s Babe, mi permette di esplorare certe idee in modi nuovi, freschi e secondo una pluralità di livelli. Io sono una scrittrice politica e tutto quello che scrivo è politico, e sì, credo che i miei mondi alternativi siano tutti sovversivi».
In Gran Bretagna è appena uscito “Manifesto”, con il quale ha debuttato nella non fiction esplorando la propria vita e la propria carriera. Il sottotitolo è “On Never Giving Up”, che possiamo tradurre “Sul non arrendersi mai”. Leggendone alcuni pezzi colpisce un fatto: lei ha avuto una vita davvero interessante. Ne era consapevole anche prima di metterla per iscritto?
«Manifesto è nato perché durante i tour di presentazione dei miei libri mi venivano fatte continuamente domande su come avessi fatto ad arrivare fin qui. Ma specialmente quando ero più giovane, nei miei vent’anni per esempio, non pensavo certo che la mia vita fosse interessante. Tutto quello che pensavo era: chi sono, dove sto andando, che cosa voglio e cose esistenziali di questo tipo. Non mi vedevo da fuori. Probabilmente è stato solo quando ho iniziato a scriverla che sono riuscita ad avere uno sguardo esterno. Voglio aggiungere, però, che Manifesto riguarda soltanto una parte della mia vita. Per esempio, ho lasciato fuori tutti i viaggi che ho fatto».
Dobbiamo aspettarci un sequel, quindi.
«Forse».
Come si sente a essere un modello per le nuove generazioni? E quali sono stati il miglior e il peggiore consiglio che ha mai ricevuto?
«Mi fa molto piacere essere considerata un modello, perché io sono l’esempio di una persona alla quale le cose sono arrivate, ma non subito e non facilmente, e mi piace che questo possa essere di ispirazione. Il migliore consiglio mi è stato dato 20 anni fa da una persona molto spirituale che mi disse che, tra i tanti doni che avrei potuto ricevere, il migliore sarebbe stato la pazienza. Allora non capii, ma oggi, se ci ripenso, è stata proprio la pazienza la cosa che più mi è servita nella vita e nella carriera. Hai bisogno di pazienza quando scrivi un romanzo per molti anni. Hai bisogno di pazienza quando il tuo lavoro non ti fa guadagnare abbastanza. Hai bisogno di pazienza quando non riesci a trovare la persona che è giusta per te. Il peggiore consiglio, invece, l’ho ricevuto 5 anni fa da una persona molto importante nel mondo della letteratura: mi disse che per far progredire la mia carriera avrei dovuto iniziare a scrivere romanzi tradizionali. Ma ricordo di avere pensato: “Io non posso e non voglio farlo"».
Infatti poi ha scritto Ragazza, donna, altro. Il resto è storia. —