Robinson, 6 novembre 2021
Intervista ad Alessandro Haber
In una tarda mattinata romana vedo Alessandro Haber. Ha una casa che gli assomiglia: accogliente e caotica.
Durante i due anni di alterni lockdown ha scritto un libro sulla sua vita: sui personaggi che ha incontrato, le donne che ha amato e il mestiere che ha svolto; girato due corti che trovo belli e spiazzanti, di una tenerezza rude, perfino sconvolgente.
Quest’uomo di 74 anni è una coacervo di emozioni in libera uscita: si commuove parlando al telefono con la figlia Celeste; ride sventolandomi sotto il naso il copione di Morte di un commesso viaggiatore, cui sta lavorando per un prossimo tour teatrale. Una vita di alti e bassi esistenziali, vissuta nella convinzione di avere più dato che ricevuto. È un talento vero, Haber, forse eccessivo: deborda e travolge qualunque cosa incontri: «Sono così, senza un mondo privato. Tutto quello che faccio e dico coincide con la mia dimensione pubblica. Ho amato, peccato, tradito, odiato ma senza rancori eccessivi come se la rabbia dovesse ogni volta defluire in fretta. Che altro? Ho fatto nella vita la sola cosa per la quale ero tagliato: l’attore».
Il titolo del tuo libro “Volevo essere Marlon Brando, ma soprattutto Gigi Baggini” tira fuori le tue due anime.
«Brando è la star inarrivabile, il feticcio; Baggini è l’attore fallito, il personaggio che interpreta Ugo Tognazzi in Io la conoscevo bene, ce l’hai presente?».
Lo ricordo mentre si esibisce grottescamente in un tip tap durante una festa. Ma tu che c’entri con lui?
«Baggini è l’ombra che mi perseguita, talmente familiare che ho imparato ad amarla. A volte penso che sarei potuto finire come lui. E mi rendo conto del fascino che subisco davanti a certi fallimenti. È una sensazione strana. Dovrei averne paura e invece mi sembra una scuola di vita, un modo per capire i miei limiti, le mie fragilità».
Non provi a rimuoverli?
«A che servirebbe. Ho cercato, semmai, di lavorare su questi difetti accettandoli».
Sei stato in psicoanalisi?
«No, mi spaventa la sola idea di raccontare a qualcuno i fatti miei».
Perché?
«Non voglio sapere come sono davvero. Non voglio che un estraneo scavi nella mia infanzia, magari obbligandomi, dopo tutta la fatica che ho impiegato, a rinunciare a quello che sono diventato. No, che senso avrebbe dire: ho sbagliato tutto?».
Hai un’infanzia interessante.
«Trovi? Fare l’attore è sempre stata la sola cosa che mi abbia interessato. Un desiderio basico, selvaggio, senza compromessi possibili».
E i tuoi?
«Mia madre scettica, papà inerte».
Haber che origine ha?
«Mio padre, Sigismondo, era un ebreo rumeno. Si arruolò con gli angloamericani e finì in Italia nella Brigata ebraica per combattere il nazifascismo. Dopo la liberazione conobbe a Bologna Tomasina, mia madre. Si sposarono e nel gennaio 1947 nacqui io. Avevo un anno quando ci trasferimmo a Tel Aviv. Papà si adattò a diversi mestieri: il tassista e il muratore. Conosceva cinque lingue, suonava il violino ma gli toccarono lavori umili. Siamo restati per nove anni in quella città, poi ci trasferimmo a Verona».
Cosa ti resta di Tel Aviv?
«Le spiagge bianche e belle a un paio di chilometri dalla città, i giochi di banda con gli altri ragazzini. Qualche cinghiata da parte di mio padre per l’ostinazione con cui mi rifiutavo di andare a scuola. Sono stato molto libero, ma anche disastrosamente inadatto a un’adolescenza normale. Ho impiegato il doppio del tempo per fare i tre anni di medie».
Volevi fare l’attore.
«Sandrino, ma che ti sei messo in testa! diceva mia madre. Ma eravamo già a Roma, dove ci trasferimmo nel 1964. Sì, ero determinatissimo. Nel mio orizzonte non vedevo che cinema e teatro. Cercai una scuola. La Silvio D’Amico aveva chiuso le iscrizioni. Andai allo Studio Fersen, metodo Stanislavskij, quello che aveva praticato Marlon Brando!».
E tu volevi diventare come lui.
«Roma non era Hollywood, anche se in quegli anni le somigliava. Mi appostavo sotto le case dei registi famosi, frequentavo i luoghi dove sapevo che sarebbero andati.
Ma non era facile. Ne ho fatti di provini e ti assicuro che restavano ammaliati dalle mie performance. Una volta incrociai a piazza Navona Orson Welles, camminava con passo monumentale e un grosso sigaro stretto tra due dita a forma di salsiccia. Gli dissi che amavo i suoi capolavori, che ero un attore e che volevo lavorare nel suo cinema. E lui secco: io no. In un’altra occasione inseguii Jean-Luc Godard per Roma. Fu Lou Castel a dirmi che era il genio della Nouvelle Vague. Lo raggiunsi, gli dissi in un buon francese le stesse cose che avevo detto in un pessimo inglese a Welles. Fu sprezzante, infastidito, e lo mandai a quel paese».
Hai avuto più fortuna con il teatro?
«Mi ha reso più libero. Roma, agli inizi della mia carriera, era un pullulare di teatrini off, di cantine umide con quattro tavole per palcoscenico. Ebbi la fortuna di incontrare Giancarlo Nanni, considerato uno dei principi dell’avanguardia. Compagno nella vita e sul palcoscenico di Manuela Kustermann. Una coppia di grande successo.
Se la tiravano. Ai loro spettacoli andava tutto il teatro e il cinema che allora contava. Nanni mi offrì una parte per Il diavolo bianco di John Webster. C’erano grandi aspettative. Ma fu un mezzo fallimento».
So che frequentavi Carmelo Bene.
«L’avevo sentito in un suo monologo tratto dal Faust o Margherita. Fu pazzesco. Tempo dopo mi chiamò per una parte nella Cena delle beffe. Passammo alcune settimane a provare. A differenza dei comuni mortali Carmelo esigeva che si lavorasse la sera. Dopo le prove, a notte ormai inoltrata, si organizzava un poker che di solito finiva all’alba».
Al tavolo chi c’era?
«Lydia Mancinelli, all’epoca la sua compagna, e Gigi Proietti, anche lui impegnato in una parte. Per la prima volta il teatro mi sembrava una famiglia nella quale comodamente stare. Ho frequentato Carmelo saltuariamente ma avevo per lui un’ammirazione sconfinata. L’ultima volta che ci siamo visti fu per una proposta che mi entusiasmò: voleva riprendere il suo Don Chisciotte. Mi propose di interpretare Sancho. Gli dissi che ero occupato ma per lui, per quella parte, avrei lasciato ogni cosa. Peccato che il progetto non andò in porto. È un altro aspetto della precarietà di questo mestiere».
Nel cinema è più facile?
«Anche quello è un luogo di imprevisti e di delusioni.
Quando girai una parte nel Conformista di Bertolucci sentivo di aver fatto una cosa importante. Ero felice. Ma prima che il film uscisse incontrai casualmente Bernardo, colsi un’aria di imbarazzo, gli chiesi che avesse. “Ma niente”, mi rispose, “solo che ho dovuto per esigenze di produzione tagliare tutta la scena in cui sei presente”».
E tu?
«Lo insultai, mi arrabbiai, stavo per mettermi a piangere. E lui con l’aria contrita disse: non ti preoccupare, anzi ricordati Haber che ti sono debitore».
Se ne è ricordato?
«Macché, anzi quando una volta lo incrociai e gli dissi: Bernardo ricordati che mi sei debitore, lui mi guardò irritato: ma che cazzo dici Haber!».
A volte sembri un attore da una “botta e via”.
«Ma no, ho fatto sette film con Pupi Avati e cinque con Mario Monicelli. È capitato che con alcuni registi abbia lavorato a un solo film».
Per esempio con Nanni Moretti, come vi siete confrontati?
«Nanni mi cercò per Ecce Bombo, ci vedemmo in trattoria per discutere la parte. E lui esordì dicendomi “Haber ci sono due cose di cui non voglio che si parli qui a tavola, la figa e il calcio”. Me lo disse con la sua voce inconfondibilmente assertiva».
Invece la tua voce, un po’ graffiata, ha aperto un altro capitolo della tua vita.
«Canticchiavo in privato qualche testo di Paoli e Tenco.
Mimmo Locasciulli ascoltandomi disse che avevo una voce bella e particolare. Poi durante una cena alla quale c’era De Gregori, Mimmo gli disse: Francesco dovresti sentire Haber quando canta. E lui di controvoglia mi ascoltò. Restò sorpreso. Disse che gli piaceva il mio modo di cantare. E allora, gli chiesi, perché non scrivi una canzone per me? Qualche tempo dopo compose La valigia dell’attore. Fui stupito e grato della sua generosità. Non è solo una canzone, è un concentrato di immagini, di dettagli che ne rivelano la grandezza poetica, anche se so che non ama che lo definiscano poeta».
C’è in quel testo una traccia di malinconia. Forse la stessa che, al di là della tua irruenza, ti pervade.
«È la sensazione a volte struggente che le cose passano e so che non le posso arrestare. Provo a non pensarci, tuffandomi nel lavoro che considero il più bello del mondo. E poi mi dà forza e allontana le insidie della depressione sapere che non esisterei se non ci fossero gli altri».
Come la contrasti quando si manifesta?
«Ci sono vari modi, uno ricorrente è immaginare di telefonare a mia madre, che non c’è più, per chiederle se mi ha cercato qualcuno: “Sandrino, ti ha telefonato un certo Strehler”. E io penso, guarda che attore importante che sono».
Lo sei senza discussione. Ma Strehler ti ha mai cercato veramente?
«Mi fece chiamare, mi invitò a casa, mi propose una particina in L’anima buona di Sezuan e io gli dissi: maestro, non me la sento di stare in scena cinque minuti e tre ore dietro le quinte a fare le parole crociate. Cercò di convincermi. Ma tenni il punto. Pur considerandolo un genio non mi sono mai pentito di quel no».
Compensava, in qualche modo, i no che avevi ricevuto.
«Ho imparato a convivere con quei “no”, con il telefono che in certi momenti non squilla e io lì impaziente e ansioso che aspetto. Ho imparato che gli attori sono persone fragili e che il pubblico si può dimenticare di noi, ho imparato che la vita è fatta di imprevisti e di quelle cose, come dicevo, che ci sono e poi passano. Ciò che particolarmente mi turba oggi sono gli amici scomparsi: Ennio Fantastichini, Monica Scattini e Piero Natoli, Nanni Loy e Mario Monicelli, Gian Maria Volonté e Giulio Brogi.
Sono come delle isole che l’alta marea ha coperto».
Pensi mai alla morte?
«Non mi va di dire le solite cazzate, tipo l’attore che mormorando l’ultima battuta cade stecchito sul palcoscenico. No. Il mio desiderio sarebbe di morire non proprio in estate, magari in autunno inoltrato quando ci sono tutti e di poter ascoltare un amico che pronunci un bellissimo discorso funebre mentre sono vivo. E io nascosto che mi commuovo e piango insieme a tutti gli altri: nessuno era come lui, più grande di Lawrence Olivier, meglio di Orson Welles. La verità è che sarebbe un peccato lasciare questa vita. Certe volte mi chiedo: ma quanti mondiali di calcio potrò ancora vedere?».
O, magari, quante donne potrai ancora frequentare.
«Sono state tante e le ho amate tutte. Ho avuto incomprensioni e incidenti».
A proposito di incidenti ci fu quello che ti coinvolse durante le prove di “Otello” al Teatro Romano di Verona.
«Fui cacciato per un bacio che mi scappò troppo spinto.
Mi beccai un ceffone, contraccambiai. La situazione mi sfuggì letteralmente di mano. Chiesi scusa, scrissi scusandomi di nuovo. Niente. Mi sentii disperato per un gesto che andava al di là delle mie intenzioni. Sono stato un donnaiolo, termine che oggi verrebbe crocifisso. Ma la verità è che ho spesso desiderato avere una sola donna per tutta la vita, invecchiare insieme. Un po’ come mio padre e mia madre. E invece è andata in modo diverso.
Avrei voluto essere monogamo ma le ho tradite tutte».
La vita, a modo tuo, ti è piaciuta. Continua a piacerti?
«Enormemente. Anche perché sono convinto di aver regalato qualcosa agli altri e in cambio ho ricevuto la loro attenzione. Non è poco, per un mestiere che è fatto di aria e di vento».