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 2021  novembre 06 Sabato calendario

Intervista a Asghar Farhadi


La quotidianità caotica di una famiglia di Shiraz, bambini incollati al telefonino, parenti che servono il cibo a tavola, discussioni che si intrecciano, nella stessa inquadratura. La vita scorre in ogni fotogramma del cinema di Asghar Farhadi, autore iraniano dalla caratura mondiale. Lo fa con più potenza e sincerità nei film ambientati nel suo Paese, rispetto agli esperimenti europei di Il passato, con Berenice Bejo o Tutti sanno con i divi spagnoli Cruz-Bardem.
Il cineasta, 49 anni, ha scelto per il nuovo film, Un eroe, Shiraz, antica capitale di Persia, Iran del Sud, sito archelogico che racchiude i resti di antichi re, simbolo di gloria passata, di nostalgia per una grandezza culturale perduta. Debitore del Neorealismo, grande passione di Farhadi, il film racconta di Rahim (Amir Jadidi) giovane imprigionato per un debito non saldato con suo cognato. Durante un congedo in cui spera di saldare il conto, la sua fidanzata segreta si imbatte in una borsa piena di monete d’oro. Pensano di usarle per assicurarsi la sua libertà, poi Rahim decide di fingere di averla ritrovata e la restituisce, diventando un “eroe” mediatico. Ma l’immagine presto si sgretola e l’uomo lotta per difendere la sua reputazione agli occhi dell’amato figlio, che lo idolatra. Attraverso il destino di Rahim, fiducioso quanto condannato alla sconfitta, Farhadi mette in scena una società concentrata sul perdono e la redenzione intese solo come virtù mediatiche. Malgrado la lettura critica della società iraniana, Farhadi è riuscito in questi anni a non entrare in rotta di collisione con il regime, come è successo a Jafar Panahi (verso il quale ha espresso solidarietà). Anzi, è chiamato a rappresentare l’Iran agli Oscar, dove ha già vinto con Una separazione nel 2012 e per Il cliente nel 2017. In quell’edizione non si avvalse della deroga personale al bando dei voli imposto a sette paesi musulmani da Trump (poi revocato da Biden), «come un atto di rispetto per la gente del mio paese». Un eroe è in sala il 5 gennaio con Lucky Red.
Com’è nato il film?
«Nei notiziari in Iran ci sono storie di persone comuni che nella vita quotidiana fanno un gesto molto altruista: questo li porta alla ribalta per qualche giorno nella società, che poi li dimentica. Volevo raccontare l’ascesa e la caduta di uno di questi».
Che ruolo giocano oggi i nuovi media, accanto alla tv, in Iran?
«La televisione è ancora importante in realtà come Shiraz, mentre i giovani di Teheran non la guardano più. Quello dei social è un fenomeno relativamente nuovo, ma il suo impatto è tale che è difficile ricordare com’era la vita prima. Nel mio Paese la rete e i social sono molto usati per esprimere idee sulla politica, sulla società, sono un mezzo di libertà di espressione. Hanno anche valenze negative, ma i vantaggi sono maggiori. Si può avere accesso ad altre culture, avvicinarsi ad altre realtà, anche se magari si crea distanza nella famiglia. Mi preoccupa l’accesso dei bambini a un realtà spesso cruda, ma durante la pandemia la connessione è stata fondamentale per l’istruzione, anche se sono rimasti fuori i bimbi delle famiglie povere».
Il cinema è ancora capace di influenzare la vostra società?
«Sì, ha un grande impatto sul popolo iraniano. I film si vedono, anche se meno in sala. Non penso che sia minacciato dai social. È fatto per mostrare la complessità, sfumature, elementi che mancano ai social».
Il cinema iraniano ha una grande tradizione.
«Immagino che siamo tutti ispirati da una lunga storia di arte e civiltà, ne siamo stati nutriti. Il nostro gusto è stato plasmato da questa cultura».
Negli anni ha girato in Francia e Spagna, com’è tornare in Iran? «Sono sempre rimasto in Iran. Ho avuto l’opportunità di girare all’estero alcuni film, ma l’Iran è il posto a cui appartengo, dove sono i miei amici, dove tutto è familiare ed evocativo. Dove mi sento con i piedi per terra e posso stare al fianco di mia madre quando è malata: sedermi accanto a lei è un grande conforto».
“Un eroe” è un omaggio al neorealismo italiano.
«Sono un grande estimatore del vostro cinema di quegli anni: De Sica, ma anche Fellini, Visconti, Pasolini.
Nel film c’è un tributo chiaro a De Sica, ma anche se Ladri di biciclette è il più famoso, amo di più Il tetto».
La clausura per il Covid le ha ispirato storie?
«Il periodo non mi è piaciuto e non sono molto disposto a ributtarmici dentro».
Girerà ancora all’estero?
«Non so. I film mi arrivano come i sogni. Quando vai a dormire non decidi cosa sognare. Non so quale nuova storia arriverà».
La prima volta che ha sognato?
«Mi sono innamorato del cinema a 13 anni. Non so se è stato il primo sogno, ma ricordo che da ragazzino ero sicuro che avrei girato la storia di un proiezionista. Poi un giorno è uscito Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore e mi sono accorto che lo aveva fatto qualcun altro».
Ha paura di non sognare più?
«No. Sono sicuro che un giorno accadrà e mi fermerò. La vita è breve e sono pronto a fare altro».
Cosa?
«Vorrei un pezzetto di terra, iniziare a coltivarlo».
La cosa più bella che ha fatto durante la clausura?
«Mi sono organizzato una retrospettiva sull’età d’oro del cinema italiano. L’avevo già fatto molte volte, ma li ho rivisti tutti.
Penso che sia il periodo migliore nella storia del cinema mondiale».
Meglio i classici dei nuovi autori?
«Sfortunatamente per me è così».