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 2021  novembre 06 Sabato calendario

Il processo del Bataclan raccontato da Carrère


Hanno tutti e due intorno alla sessantina, tutti e due hanno perso la figlia al Bataclan. Il primo si chiama Georges Salines. Medico in pensione, asciutto, in forma, ha l’aria di un maratoneta: è un maratoneta. Viene al processo quasi tutti i giorni e per me, nel corso delle settimane, è diventato Georges, una delle persone con cui chiacchiero durante le pause delle udienze e con cui faccio comunella in questa traversata. In memoria di sua figlia, Lola, ha scritto un bel libro di amore e di cordoglio ( L’Indicible de A à Z, Seuil, 2016), poi ne ha scritto un altro che ha provocato uno choc nella cerchia delle vittime, perché è un dialogo a quattro mani con Azdyne Amimour, il padre di Samy Amimour, il terrorista che si è fatto esplodere sul palco del Bataclan ( Il nous reste les mots, Robert Laffont, 2020). Si fa già fatica, istintivamente, ad ammettere che i figli dei carnefici non siano responsabili dei crimini dei loro padri, ma i genitori dei carnefici... Georges dice che bisogna ascoltare anche il loro dolore. Dice, e lo conferma con l’esempio, che non è con la barbarie che si lotta contro la barbarie, che fare di tutta l’erba un fascio è distruttivo e che la cosa che giustifica un processo del genere è il rispetto scrupoloso della norma del diritto. Salah Abdeslam, il principale imputato, ha espresso qualche settimana fa l’auspicio che si «lascino aperte le porte del dialogo». Una proposta del genere dalla sua bocca lascia esterrefatti come quella di Adolf Eichmann che si diceva convinto che un «comitato di riconciliazione» fra sopravvissuti ebrei e criminali nazisti avrebbe permesso, con un po’ di buona volontà e se ciascuno avesse riconosciuto i suoi torti, di ripartire su basi più sane. La volontà di dialogo evidentemente ha un peso maggiore se viene da Georges Salines, in questo libro dove i due padri arrivano a sollevare, insieme, questo interrogativo spaventoso e insolubile: la pallottola che ha ucciso la figlia dell’uno è stato il figlio dell’altro a spararla? Tre giorni dopo la testimonianza di Georges, è la volta di Patrick Jardin, un uomo corpulento, senza grazia, che comincia felicitandosi con il commissario della brigata anticriminalità che aveva ucciso quella «feccia» di Samy Amimour e dice che tipi come Salah Abdeslam bisognerebbe fucilarli. La pena di morte non esiste più ed è un vero peccato, ma almeno questi vermi schifosi devono marcire tutta la vita in prigione prima di bruciare all’inferno. Dice che il 38 per cento dei musulmani francesi approva la decapitazione di Samuel Paty (il professore decapitato in Francia da un terrorista islamista il 16 ottobre 2020, ndr) e che sarebbe ora che le autorità traggano le conseguenze di questo dato. Dice: «Mi si accusa di mostrare odio ed è vero, signor presidente, provo odio, e quello che mi disgusta di più sono i genitori di altre vittime che non lo provano, questo odio. Il signore che ha scritto un libro con il padre di uno dei terroristi mi fa vomitare». Noi altri che ascoltiamo tutto questo non possiamo condannare Patrick Jardin, perché ha perduto la figlia, ma l’ondata di furore arcaico che esce dalla sua bocca ci mette terribilmente a disagio. Imparare a sostituire la legge del taglione con il diritto, la vendetta con la giustizia: è questa che viene chiamata civiltà e il mio amico Georges è un uomo straordinariamente civilizzato, a cui mi piacerebbe assomigliare se dovesse capitarmi di vivere una prova del genere. E tuttavia, questo furore arcaico che dobbiamo imparare a sormontare, prima di sormontarlo dobbiamo riconoscere che esiste: perché esiste per forza, altrimenti non saremmo umani. Tutte queste persone che sono sfilate sul banco dei testimoni dicendo che non provano collera, che vogliono un processo equo, che cedere all’odio sarebbe come darla vinta agli assassini, ammiro la loro dignità, ma la prima cosa che penso è che sia un discorso troppo unanime e virtuoso per essere del tutto sincero, e la seconda cosa che penso è che abbiano troppa fretta di mettere a tacere il Patrick Jardin che è in loro e che è una buona cosa che almeno una volta su duecentocinquanta abbiamo potuto ascoltare la sua voce tetra e senza perdono. «Dicono che sono di estrema destra, e forse sono di estrema destra, non lo so, ma anche se sono di estrema destra mia figlia comunque è morta».2. Il bulloneUn’emozione caccia via l’altra, un concentrato di umanità caccia via l’altro, un viso caccia via l’altro: l’immensa psicoterapia di queste cinque settimane ha avuto la bellezza di una narrazione collettiva e la crudeltà di un casting. Ognuno è venuto al banco dei testimoni, aveva preparato il suo testo, era un momento cruciale della sua vita. Se la sofferenza sicuramente è uguale per tutti, alcuni hanno trovato le parole giuste e hanno sconvolto quelli che ascoltavano, altri hanno infilato una serie di luoghi comuni e li hanno sfibrati. Nel giro di mezz’ora, termina tutto. Il presidente dice «Grazie per tutte queste precisazioni» (formula standard) e, se la deposizione è stata davvero intensa, «Grazie per questa testimonianza così sentita». Il testimone risale le file di banchi, torna a sedersi con gli altri. Quelli del Bataclan hanno questa fortuna, nella loro sventura: non sono soli. Sono circondati da amici. Se sono stati ostaggi, sono dei potages, che suona come «minestre» ma è composto dalle parole potes, amici, e otages, ostaggi: è l’espressione che usano loro. Vanno a bersi un bicchiere insieme. Formano una confraternita, tutti si sono interessati soprattutto a loro fin dall’inizio, tanto che bisogna costantemente ricordare che si deve dire «processo degli attentati» e non «processo del Bataclan». Già quelli dei ristoranti si lamentano di essere meno considerati, ma i grandi dimenticati sono quelli dello Stade de France. Hanno avuto diritto soltanto a una giornata, la prima, e quella giornata ci sembra lontanissima. Prima di passare a una fase completamente diversa del processo, gli interrogatori degli imputati, mi torna in mente una di queste testimonianze quasi oscurate, di una giovane donna graziosa ma tristissima, che faceva parte di un’équipe televisiva venuta a fare un reportage sui tifosi della partita Francia-Germania. Le interviste erano fatte, ma prima di andare via si era detta, per uno scrupolo di coscienza che le è costato caro, che si poteva fare ancora qualche inquadratura di atmosfera intorno allo stadio. In quel momento si era sentita sollevare da terra dal soffio di un’esplosione. Ricordiamo che i tre terroristi che si erano fatti saltare in aria allo stadio fortunatamente erano stati tanto coglioni da non farlo all’interno, dove avrebbero provocato un massacro, ma – visto che erano arrivati troppo tardi per entrare – fuori, dove non c’era praticamente più un’anima e hanno ucciso una persona sola: poca roba rispetto alla tragedia generale, ma quell’unico morto resta comunque morto, e i suoi figli restano comunque orfani. Fra le cose che proietta una cintura esplosiva ci sono dei bulloni, e uno di questi bulloni si era incastrato nella guancia di Marylin. Avrebbe potuto rimanere sfigurata, ma non è stato così. Potremmo dire che le è andata bene, ma non è vero: la ragazza gioiosa che era non esiste più. Quella ragazza che ballava, girava per l’Europa con lo zaino in spalla, quella ragazza nella cui pelle si sentiva così bene, ne parla come di un fantasma. Il posto di cui sognava, che aveva appena ottenuto, l’ha perso, l’hanno licenziata. Il suo rapporto di coppia si è sgretolato, è tornata a vivere dai genitori, una vita rimpicciolita. Adesso è disoccupata, soffre di insonnia, è impaurita, sussulta al minimo rumore, dovunque si trovi cerca l’uscita di sicurezza e per di più a nessuno frega niente di quello che ha vissuto. Ah, sei stata vittima degli attentati? Eri al Bataclan? No? Ai ristoranti, allora? No? Allo Stade de France? C’è stato un attentato allo Stade de France? Ah, non lo sapevo. Per essere sicura di ricordarsi di quello che tutti hanno dimenticato, Marylin porta sempre con sé, in un tubetto di plastica, il bullone di 18 millimetri che le hanno estratto dalla guancia. Lo tira fuori dalla borsa, questo tubetto, davanti alla corte. «Voglio farvelo vedere, ma lo conservo con me». Lo rimette nella borsa e se ne va via portandoselo dietro, e altre duecentocinquanta deposizioni irrompono dopo la sua e la schiacciano, ma Marylin che si allontana, sola, graziosa e triste, così triste, con il suo bullone nel tubetto, non la dimenticherò.(Traduzione di Fabio Galimberti)