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 2021  novembre 06 Sabato calendario

Intervista A. B. Yehoshua


Tel Aviv
«Ero pronto ad andarmene, ma Yair è venuto a disturbarmi…».
È provato dalla malattia e dal peso degli anni, ma non perde il suo umorismo pungente nemmeno quando parla dell’Ultimo capitolo di A.B. Yehoshua, il film documentario che il regista Yair Qedar gli ha dedicato, debuttato all’ultimo Festival del Cinema di Gerusalemme. Il titolo l’ha scelto lui. «Lo volevo chiamare il “capitolo finale”, però poi abbiamo pensato a quella connotazione…». La “soluzione”, si intende. Ma “finale” non è un aggettivo che si addice a Bulli – il soprannome con cui, dall’infanzia, lo conoscono tutti in Israele – perché c’è sempre una nuova idea in lavorazione. Anche in questi momenti in cui si dice pronto a congedarsi dal mondo – «non bisogna ancorarsi alla vita in sé, ma alla bella vita, e la mia lo è stata» – ha da poco pubblicato La figlia unica, il suo tredicesimo romanzo – una “novella” lo definisce – in uscita per Einaudi ed è già immerso nella scrittura della quattordicesima opera.
«Mia nipote Gaia mi fa notare che sui giornali non faccio altro che parlare della mia morte e poi sono sempre in giro». E in effetti lo incontriamo mentre non manca di dialogare con il pubblico affezionato, che lo accoglie con una standing ovation, dopo la prima del suo Ultimo capitolo a Tel Aviv. Si sorregge sul bastone e su Qedar, con cui è nato un sodalizio insolito per il regista che ha dedicato la sua carriera a monografie postume sui grandi scrittori israeliani. «Yair mi ha intervistato per il documentario su Amos Oz e gli ho proposto per una volta di fare un film su uno scrittore in vita: più semplice ed economico».
Ne è nato un ritratto intimo dell’uomo Yehoshua, una delle voci più ascoltate e amate tra gli scrittori israeliani. Araldo del fardello dell’identità ebraica, intellettuale in prima linea nel dibattito pubblico sulle questioni più laceranti – tra tutte, il conflitto con i palestinesi – con la capacità di non arenarsi su posizioni ideologiche. Ripercorre la sua vita piena – «ma senza colpi di scena: per i miei libri non ho mai attinto alla biografia familiare, mi baso sulle tragedie degli altri» – iniziata quasi 85 anni fa a Gerusalemme nel pieno di Channukkà, la festa delle luci che ricorre tra pochi giorni.
C’è un bilancio di sei decenni di letteratura, che i suoi insegnanti non si sarebbero aspettati a giudicare dalle insufficienze nei temi scritti documentate in una pagella scolastica che mostra divertito. C’è l’autocritica espressa con la nonchalance che solo i giganti si possono concedere: «Ho ripreso in mano il Signor Mani e
Cinque Stagioni: un tempo ero uno scrittore migliore». Mentre impana uno shnitzel, c’è la nostalgia per la sua Ika, per 56 anni moglie simbiotica e sua editor più severa, mancata nel 2016. «Lavavo anche i pavimenti per non farmela scappare», racconta. Ci sono le paure, il cancro che l’ha colpito poco dopo e lo spettro della morte, che si intrecciano indissolubilmente con i timori per la sorte del suo Paese.
Com’è il bilancio della vita di Abraham Yehoshua?
«Sono davvero giunto al mio ultimo capitolo. Ho vissuto una vita piena, di speranza, di positività, ho goduto di un’epoca di benessere. Dopo la Shoah avremmo potuto essere solo reperti da museo, e invece è nato lo Stato. Ho scritto negli anni in cui la letteratura della mia generazione ha ricevuto riconoscimento internazionale. Sono grato per tutto questo. La morte di mia moglie ha segnato un grande cambiamento: c’è una differenza abissale tra la vita in solitudine e di coppia. E poi è venuto a mancare l’altro partner, Amos Oz. Abbiamo tirato avanti per sessant’anni, scrittori invidiosi e amici dell’animo. Tutti i miei compagni se ne stanno andando, mi sento come l’ultimo soldato rimasto nella vedetta».
E le fa paura? Nel film usa spesso la parola “panico”. Di cosa? «Della morte, delle sofferenze, della senilità, di non essere più in grado di creare. E paura per il futuro dei nostri figli: lasciamo in eredità un mondo più complesso, vedi pandemie, riscaldamento globale. E anche con i palestinesi, ci rimane solo la prospettiva dello Stato binazionale».
Per decenni la sua è stata una delle voci più ferme a favore della soluzione dei due Stati.
Cos’è cambiato?
«È diventata impraticabile, già da vent’anni. Non è più possibile evacuare gli insediamenti.
Oggi per smantellare un outpost illegale con venti svampiti hai bisogno di quattro unità. Come evacui Ofra? La separazione non è più fattibile, bisogna pensare a come convivere. Siamo in uno stallo che a un certo punto diventerà realtà e sarà un esperimento sul campo. Da qui il panico: perché nessuna delle parti riflette davvero sul da farsi. La destra vive nell’illusione che lo status quo sarà eterno, la sinistra continua con il mantra dei due popoli, due Stati. Ho il cancro, sono in chemioterapia, giusto? Ora bisogna pensare a una cura contro la prospettiva dell’apartheid. Mi riferisco alla Cisgiordania, perché da Gaza ci siamo ritirati, avrebbero potuto costruire grattacieli, con i soldi del Qatar, e invece hanno costruito tunnel e missili».La paura è che israeliani e palestinesi non possano convivere?«È l’incertezza. Perché già viviamo insieme. In Israele vivono due milioni di arabi da settant’anni. La nostra economia è interconnessa. Il popolo ebraico ha vissuto tutta la sua storia all’interno di altri popoli, ora ha paura di un altro popolo al suo interno? Poi quando penso che un giudice arabo cristiano ha condannato a sette anni l’ex presidente dello Stato, sono fiducioso. Siamo destinati a vivere insieme per l’eternità».Nel film ripete: «Ci vorrebbe un po’ di demenza qui, capacità di dimenticare». Cosa deve dimenticare il popolo che fa della memoria uno degli elementi fondanti della sua identità?«Rivangare nel passato paralizza. Dobbiamo un po’ dimenticare, tutti quanti. Per quanto ancora dobbiamo parlare di profughi palestinesi? Non si può essere profughi 70 e passa anni. E, in ogni caso, perché questo deve essere un impedimento a costruire, sviluppare dove è possibile? Siete la Palestina, costruitela!E gli israeliani, basta con questa narrativa dicotomica ashkenaziti contro sefarditi: siamo un’identità israeliana, mediterranea. Bisogna smettere di guardare alle origini in Polonia, in Yemen, la sinagoga in Lituania o la tomba a Uman. Le nostre radici ora sono qui, ed è dove si trovano le radici che si costruisce. Perché dobbiamo continuare a cercarle nella diaspora dove abbiamo sofferto e perso milioni di vite?».Deduco che non sia un estimatore dei viaggi della memoria in Polonia?«Se fossi rimasto ucciso nella Shoah, non so se avrei apprezzato queste masse che vengono a vedere le valigie, i denti, i capelli dei morti. Non è necessario guardare. Si può, si deve parlarne».A Ramallah, in una scena del film, regala a dei consiglieri di Abu Mazen due suoi libri, in ebraico e in inglese. La letteratura israeliana tradotta in arabo è quasi inesistente. Perché?«Solo due miei libri sono stati tradotti. Ho sempre detto: prendete, traducete in arabo, non voglio nessun diritto. Ma sa, non hanno tradotto tanti autori occidentali. O forse è perché sono arrabbiati con gli israeliani, e a ragione».Pensa che autori come lei, Oz, Grossman, non avreste ottenuto riconoscimento internazionale senza la vostra presa di posizione politica?«Dopo il ’ 67, la nostra letteratura è stata accolta con interesse anche per via del conflitto, ci è stato dato credito non solo per le nostre creazioni, ma anche per le nostre opinioni.Oggi non c’è più quella spinta ideologica profonda. In generale, la questione palestinese non interessa agli scrittori di oggi. E nemmeno agli europei appassiona più il conflitto. Sono, siamo tutti disillusi».In uno dei suoi primi racconti, “Di fronte ai boschi”, rievoca la Haifa dove ha scelto di vivere, dopo aver lasciato Gerusalemme in cui è nato. Il più recente “Il tunnel”, è ambientato nel deserto. Qual è il suo Israele?«Lasciare Gerusalemme è stata una delle decisioni più intelligenti della mia vita. Anche Amos Oz mi diceva “una sola notte a Gerusalemme e mi viene l’ansia”. Gerusalemme è compressa, piena di miti, di pesantezza, di assurdità. A Haifa c’è un equilibrio naturale e demografico che la rende armonica. Ma mi riconosco in quello che diceva Ben Gurion: il deserto stabilirà la sorte del popolo d’Israele.Specie se andiamo verso lo stato binazionale».Come nasce la scelta di ambientare in Italia “La figlia unica”, in uscita per Einaudi?«A 84 anni ( è nato il 9 dicembre 1936, ndr) la gente mi chiede ancora se scrivo e io rispondo “penso di aver scritto abbastanza!”. Un giorno è arrivata una dottoranda che scriveva una tesi sull’accoglienza dei miei libri in Italia. Come spesso capita, è venuta a intervistare me, ma alla fine l’ho intervistata io e sono rimasto colpito da una storia che pone molteplici questioni identitarie. Mi interessava sviluppare il tema dell’identità ebraica in bilico tra due culture. L’Italia, un Paese con una profonda influenza cattolica, era la perfetta scenografia per vagliare i rapporti tra ebrei e non ebrei su uno sfondo mediterraneo. È una storia di matrimoni misti. Un argomento che presto ci occuperà non poco anche in Israele. L’Italia poi è un Paese che porto nel cuore, quello che più ho visitato nella mia vita e da cui ho ricevuto moltissimo».A proposito di cuore, nel romanzo un ruolo curioso lo ricopre il libro “Cuore”.«È il libro che mi ha fatto capire che volevo diventare scrittore. Quando ero bambino e mio padre me lo leggeva, non smettevo di piangere.L’identificazione nei personaggi, l’empatia che mi è stata trasmessa dalla scrittura di De Amicis, mi hanno dato l’indicazione di quanto la letteratura possa entrare nell’animo umano. E la sicurezza in me stesso per pensare che un giorno, chissà, forse sarei riuscito anche io a fare piangere qualcun altro con la mia scrittura».Ci sono diversi elementi biografici ne “La figlia unica”.ha un ruolo anche in questo passaggio difficile, perché gli adulti ne utilizzano i racconti per preparare la protagonista alla tragedia. Non ricordo se quando ho iniziato a scriverlo avevo già ricevuto la mia diagnosi, ma mi dico che in un certo senso la malattia l’ho presa dal libro, mi sono identificato con il personaggio».E, nonostante avesse definito “La figlia unica” il suo libro di commiato, in realtà sta già lavorando a una nuova storia, da cui verrà tratto un film.«È il seguito della vita della protagonista Rachele, che sceglierà di trasferirsi in Israele. Anche in questo caso si tratterà di una novella breve, chissà se riuscirò a finirla… È la scrittura a tenermi in vita».