Corriere della Sera, 6 novembre 2021
Intervista a Guido Alpa
Nella facoltà di Biologia dell’Università di Genova a quel tempo mancava tutto: stabulari, microscopi, vetrini, provette. Fu così che l’aspirante zoologo Guido Alpa ripiegò su Giurisprudenza e divenne ciò che è, uno dei maestri del diritto, accanto ai Delitala, ai Carnelutti, ai Nuvolone, ai Sandulli, ai Rodotà. «Infesto le riviste giuridiche da 50 anni, per me scrivere e respirare sono la stessa cosa», si schermisce. Ma qualcosa dell’antica vocazione è rimasto. A Otto, il bassottino che lo attende nella sua residenza ligure il venerdì sera e gli tiene compagnia fino al martedì mattina quando riparte per Roma, è riuscito a insegnare 150 locuzioni equivalenti ad altrettanti comandi.
Farsi capire dagli animali più che dagli uomini procura all’avvocato Alpa un’angustia indicibile. «Vedo il mio nome accostato con pervicacia a vicende cui sono del tutto estraneo», sospira. Più esplicito il documento sottoscritto da 140 estimatori, 126 dei quali docenti universitari, che denuncia come «da tre anni a questa parte» il professor Alpa, per un decennio presidente del Consiglio nazionale forense che rappresenta gli oltre 200.000 avvocati italiani, sia «fatto oggetto di una continua, virulenta e infamante campagna mediatica», nella quale «gli vengono attribuiti inesistenti favoritismi concorsuali nei confronti dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, oscure relazioni di potere politico ed economico, comportamenti disonesti se non illeciti». Primo firmatario il giurista Pietro Rescigno, classe 1928, accademico dei Lincei. Un’attestazione di solidarietà giunta dopo che il nome di Alpa è stato accostato a quello dell’avvocato Luca Di Donna, in passato suo collaboratore, indagato per traffico illecito di influenze.
Da quanti anni ha lo studio a Roma?
«Da 30, da quando fui chiamato alla cattedra di Diritto privato alla Sapienza».
Mi aspettavo uno stuolo di associati.
«Lavorano con me otto avvocati, quattro qui e quattro a Genova. Mi occupo solo di diritto civile e commerciale. Organizzazione piccola, spese piccole».
Disse l’ex consigliere di Mediobanca.
«Non ho mai ricoperto questa carica».
È Wikipedia ad attribuirgliela, citando come fonte un noto quotidiano.
«La dice lunga sullo stato dell’informazione. Non conoscevo Enrico Cuccia».
Biologo mancato, giurista per caso.
«Cominciai ad amare il diritto dal terzo anno di università. Dal giorno in cui il mio maestro Stefano Rodotà, dovendo spiegarci il concetto di proprietà, trasse di tasca alcuni foglietti e ci lesse le lettere che i soldati avevano scritto al condottiero Oliver Cromwell per suggerirgli come disciplinare la materia in Inghilterra. Prima nessuno di noi capiva i valori in campo dietro le astruse formule giuridiche, ci limitavamo a consultare il codice».
Perché scelse il diritto civile?
«Perché costruisce la società, mentre quello penale serve più che altro a colpire. Ma ero affascinato anche dalle lezioni del professor Carlo Federico Grosso».
Primo difensore di Annamaria Franzoni nel processo per il delitto di Cogne.
«Mi avrebbe visto in tv da Bruno Vespa a esaminare il plastico della villetta?».
Il suo primo caso in tribunale?
«Un incidente d’auto a Genova. Con i giudici Vito Monetti e Giancarlo Pellegrino mi confrontai su un criterio: non quello del reddito perduto a causa del sinistro, bensì della lesione alla salute. Da lì nacque il cosiddetto danno biologico».
Come conobbe Giuseppe Conte?
«Era già assistente di Diritto civile alla Sapienza quando io vi arrivai nel 1991. Non sono stato né il suo maestro né il suo mentore. Abbiamo lavorato insieme a qualche pratica e scritto un libro a quattro mani, ma non è mai stato mio associato. I nobili Pasolini dall’Onda gli diedero in affitto lo studio sopra il mio. Lo chiuse quando divenne premier. Mi sembrò un delitto, perché lo stimo molto, è un finissimo giurista».
Avete mai emesso fatture insieme?
«Si riferisce alla pratica affidataci da Rodotà, all’epoca garante per la privacy, in difesa del suo ufficio contro la Rai? O alla persecuzione delle Iene per dimostrare che ero nella commissione di un concorso vinto da Conte? Un assedio durato mesi. Una sera me le ritrovai appostate in aeroporto nonostante all’ultimo momento avessi cambiato il volo Genova-Roma. A tutt’oggi non riesco a capire chi abbia potuto allertarle».
Il miglior pregio di Conte?
«È molto intelligente. E anche molto paziente e molto tenace».
Il peggior difetto?
«Non ha la percezione del tempo. Arriva in ritardo agli appuntamenti perché si dimentica di caricare l’orologio».
Quando gli fu proposto di fare il presidente del Consiglio, si consultò con lei?
«No. La sua carriera pubblica è autonoma rispetto alle mie idee. Non fui tra coloro che gioirono per quell’incarico. Pensavo, e penso, che fosse un errore dedicarsi alla politica a tempo pieno».
È normale che abbia presieduto due governi consecutivi di segno opposto?
«Gli posi la stessa obiezione. Mi rispose che aveva un suo progetto da perseguire con entrambe le coalizioni».
E qual era questo progetto?
«Conte è profondamente religioso. È molto sensibile alla giustizia sociale, ai diritti fondamentali, alla tutela dei deboli. In loro vede l’immagine di Cristo».
Lei no?
«Con il tempo la mia religiosità è diventata laica. Però anch’io mi sento vicino ai poveri, agli umili, agli immigrati».
Per questo ha meritato la commenda dell’Ordine di san Gregorio Magno presieduto da papa Francesco?
«Quella la ebbi da Benedetto XVI».
Mi risulta che il cardinale Angelo Becciu volesse ingaggiarla come difensore nel processo in Vaticano per la vicenda del palazzo di Sloane Avenue a Londra.
«Vero. Avrei accettato volentieri, ma gli interessi del porporato erano in conflitto con quelli di un altro imputato, Raffaele Mincione, da me assistito nel caso Carige. Questione di deontologia».
Meglio lavorare per Palazzo Chigi.
«Un’altra grande falsità. Mai avuto incarichi. Anzi, proprio per il rapporto amicale con Conte, mentre era premier mi astenni da qualsiasi attività forense che fosse in conflitto con i ministeri».
Però voi due v’incontravate a cena.
«L’ho rivisto solo a luglio dopo tanto tempo, al Bellacarne, nel Ghetto. Gli avventori lo hanno applaudito. Poi circa un mese fa, nello stesso ristorante kosher».
Conosce Beppe Grillo?
«No. Ignoro persino i nomi dei genovesi che abitano nel mio palazzo».
Non ha steso lei lo statuto del M5S?
«Ennesima menzogna colossale».
Ha votato almeno per Virginia Raggi?
«Per fortuna voto a Genova».
Ha detto «per fortuna»?
«Voce dal sen fuggita. Cancelli. Vedo i pentastellati con simpatia. Hanno cercato d’introdurre nuove forme di partecipazione politica. Ma il compito che Conte si è assegnato mi pare improbo».
Mi parli dell’avvocato Luca Di Donna.
«Persona perbene, brillante. Non si è laureato con me. Ha lavorato nel mio studio, poi ha occupato quello lasciato libero da Conte. Sono molto triste per l’inchiesta che lo ha coinvolto. È aberrante che una persona venga a conoscere dai giornali atti coperti dal segreto istruttorio. Un caso dai contorni opachi».
Esclude che serva a colpire Conte?
«Non lo escludo affatto».
Per gli inquirenti Di Donna aveva «acquisito potere». Si parla di «un arricchimento economico per tutti i sodali, dopo che una terza persona si è affermata».
«Supposizioni. Hanno strumentalizzato financo la sua nomina a presidente in una commissione per l’esame di avvocato. Chiunque sa che si tratta di una grande perdita tempo, nemmeno retribuita, e che il ministero della Giustizia stenta a trovare docenti disponibili».
Su Di Donna, la Procura di Roma riporta un’intercettazione dei carabinieri: «Gli è cambiata la vita!».
«Gli è cambiata la vita? Non lo so. A me pare che conduca la stessa di prima».
Dalle carte emergerebbe che Di Donna avrebbe incontrato nello studio Alpa un imprenditore e un generale della Finanza per una fornitura di mascherine.
«Non conosco le persone citate. L’equivoco nascerà dal fatto che i nostri uffici sono ubicati nello stesso edificio».
Ne ha chiesto conto a Di Donna?
«Certo. “Sono tutte cose non vere”, ha risposto. Ha assistito questo imprenditore, il quale, una settimana dopo avergli conferito l’incarico, gliel’ha revocato. A una mia precisa domanda, ha risposto di non aver neppure ricevuto un acconto».
Lei conosce Domenico Arcuri?
«L’ho incontrato solo una volta in vita mia, a un pranzo, anni fa».
Qual è il suo attuale stato d’animo?
«Meno amareggiato, dopo gli attestati di stima. Un po’ l’età e un po’ l’esperienza m’insegnano che tutto passa. Il mio nonno paterno emigrò per fame in Argentina dal 1924 al 1952. Lasciò a casa moglie e quattro figli. Tre di loro andarono in guerra. Alla caduta del fascismo diventarono partigiani. Sono un resistente pure io. La vita mi ha allenato ai sacrifici».
La notte dorme, almeno?
«Sì, sì. Con l’antistaminico Remeron».
Ha mai dato interviste?
«Come questa, no. Dagospia mi chiama Prezzemolino, ma detesto apparire».
Come definirebbe la giustizia in Italia?
(Ride). «Un malato cronico. Massimo D’Alema mi ha chiesto un articolo sul tema per Italiani europei. Ebbene, è dal 1865, da quando esiste il codice di procedura civile, che si parla di riformarla».
Non ha nulla da rimproverarsi?
«Leggendo i giornali, mi sono chiesto in che cosa avessi sbagliato. Non ho trovato risposta. Ma se questo è il costo della democrazia, mi pare troppo alto».