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 2021  novembre 06 Sabato calendario

Esclusi dalla democrazia

Essere culturalmente e ideologicamente, non politicamente, conservatori in Italia è facile. Anche perché fondamentalmente conservatore, come si sa, è il nostro Paese. Ma è facile esserlo in privato. Non è facile per nulla, invece, avere una voce di tipo conservatore nel dibattito pubblico. Esprimere un punto di vista diverso, magari critico o addirittura contrapposto rispetto alla cultura progressista, ma con la speranza che tale punto di vista non venga bollato all’istante come inconcepibile, retrogrado, privo di qualunque ragionevolezza, magari espressione di una cieca disumanità. Ma al contrario entri, come dicevo sopra, nell’arena pubblica, nel circuito dei media che contano.L’ennesima riprova si è avuta dalle reazioni al voto contrario del Senato sul disegno di legge Zan. «Vergognatevi» ha titolato l’indomani un quotidiano a tutta pagina, rivolgendosi evidentemente agli oppositori della legge ed esprimendo in una sola parola il sentimento largamente prevalente in tutto il sistema dei media più accreditati. Ma vergognarsi di cosa? No di certo del fatto che la bocciatura fosse avvenuta con il voto segreto, immagino, dal momento che, guarda caso, proprio con un eguale voto segreto – deciso allora dal presidente Fico e nell’assenza di qualunque protesta – la legge passò un anno fa alla Camera, un particolare tuttavia pudicamente sottaciuto dal fronte degli odierni scandalizzati.
I quali invece si servono oggi dell’uso da parte dei loro avversari del voto segreto per dipingerli come una subdola congrega di congiurati usi a colpire nell’ombra. Inoltre, visto che come i fatti hanno mostrato la maggioranza del Senato era contraria alla legge, mi chiedo: i sostenitori della legge Zan pensano forse che invece sarebbe stato meglio, più conforme alle regole della libera rappresentanza, che il voto palese avesse obbligato gli avversari della legge a votare contro il proprio convincimento? È questo che bisogna intendere per democrazia parlamentare?
Di che cosa, allora, avrebbero dovuto vergognarsi gli oppositori della legge? Suppongo di non voler proteggere chi è vittima di disprezzo o di aggressione a causa del proprio orientamento sessuale, e perciò di essere più o meno larvatamente a favore della discriminazione e della violenza contro omosessuali, trans ecc. E sicuramente è questa oggi la convinzione della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica progressista. La quale però, mi pare che non abbia avuto modo di riflettere a sufficienza su due punti importanti della legge Zan. Sull’articolo 4 – che nelle materie di sesso stabiliva essere assicurata a chiunque la «libera espressione di convincimenti ed opinioni purché non idonee a determinare il concreto pericolo di atti discriminatori e violenti» – e sull’articolo 7 che stabiliva una giornata nazionale, da celebrare nelle scuole, contro l’omofobia, la transfobia, ecc. al fine tra l’altro di «contrastare i pregiudizi motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere».
Bene. Ma chi decide quale convincimento o opinione è o non è «idoneo» a determinare un «pericolo concreto» di violenza legato all’orientamento sessuale? E chi decide nella medesima materia la differenza tra un giudizio (consentito) e un «pregiudizio» (viceversa sanzionato)? È ammissibile allora, mi chiedo, trattandosi di un bene tra quelli supremi garantiti dalla Costituzione come la libertà di pensiero, una tale vaghezza? Un tale indeterminato ricorso all’opinione di questo o quel tribunale? Personalmente sono sicuro che in grande maggioranza anche l’opinione progressista del Paese una simile domanda non avrebbe mancata di porsela. Ovviamente a una condizione: se essa fosse stata adeguatamente informata circa la legge di cui stiamo parlando.
Qui si tocca il punto nevralgico di cui dicevo all’inizio. Il fatto cioè che nel nostro Paese in specie dopo la scomparsa politica dei cattolici e l’avvento di una società massicciamente secolarizzata è diventata estremamente difficile l’espressione pubblica di un punto di vista che non accetti a occhi chiusi il punto di vista della cultura progressista. Riemerge con forza l’antica mancanza di educazione democratica del Paese sicché qualsivoglia opinione dissenziente tende a essere immediatamente classificata come puramente reazionaria e a essere quindi messa al bando. È in questo clima che una voce di orientamento conservatore opposta al dominio del politicamente corretto diviene pressoché impossibile. O per essere più precisi, un tale punto di vista può benissimo essere manifestato ma è quanto mai improbabile che esso venga preso realmente in considerazione dalla discussione pubblica ufficiale e trattato come un normale elemento del dibattito culturale alla pari con quelli di segno contrario.
Nell’arena pubblica specie radiotelevisiva capita quasi sempre, infatti, che il punto di vista culturalmente conservatore sia implicitamente spogliato di qualunque contenuto e dignità ideali, e quindi preliminarmente stigmatizzato come indegno di vera considerazione. Al massimo trattato soltanto come frutto di una posizione puramente politica, ridotto in sostanza a un’espressione di partito. Esso viene sottoposto cioè a un meccanismo di depotenziamento e soprattutto di declassamento. Viceversa il punto di vista ispirato ai canoni del politicamente corretto progressista viene sempre presentato come un punto di vista che ha sì conseguenze di tipo politico, ma che soprattutto è suffragato dalla più accreditata modernità culturale. Cioè dal bene per antonomasia. Negli studi televisivi che fanno opinione la modernità diviene un feticcio solo da adorare; quanto poi pensa o decide l’Europa assurge a compimento del progresso e delle sue prescrizioni politiche o morali. Tanto è vero che nel dibattito televisivo di prammatica a illustrare queste ultime sarà di regola chiamato il noto scrittore X o il brillante filosofo Y, a obiettare ad esse, invece, un qualche maldestro parlamentare della Lega o di Fdi, al massimo il giornalista di qualche foglio di destra.
I temi etici o attinenti i costumi sessuali costituiscono l’ambito elettivo di questa finta discussione alla pari di cui si compiace 24 ore su 24 praticamente l’intero sistema dei media del Paese o perlomeno quelle sue parti che contano. Realizzando così la virtuale esclusione dal dibattito pubblico di un gran numero di cittadini. Ma nelle società attuali essere esclusi dal dibattito pubblico significa di fatto essere esclusi dalla democrazia, dal suo cuore pulsante di ogni giorno, significa non essere riconosciuti, vedersi negata una rappresentanza essenziale, forse più essenziale di quella elettorale. Significa essere dichiarati cittadini di serie B e quindi spinti a rinunciare a partecipare alla vita pubblica o ad abbracciare posizioni di rottura. Significa la trasformazione del regime democratico in un’insopportabile oligarchia di depositari della virtù civica e della presunta verità dei tempi.