la Repubblica, 6 novembre 2021
Storia del Gazometro romano
C’è una storia antica dietro al Gazometro romano, che vide la luce per illuminare il buio, e al suo quartiere Ostiense. Quando nacque, era l’apice di una trasformazione radicale cominciata due secoli prima, in una capitale che stava ridisegnando se stessa, e che continua a farlo ancora oggi con lui, il colosso di ferro, sempre tra i perni del cambiamento. Adesso è al centro della zona che diventerà il nuovo polo tecnologico della città, raccordo di industria e ricerca, un’area che sta mutando di nuovo dopo una cronaca di marginalità, diventata innovazione, poi abbandono e ancora fonte d’ispirazione per gli artisti. Per quell’aura malinconica da monumentalità in rovina, ricordo di fasti passati che precipitano nell’oblio a cui Roma è abituata da secoli. C’è una rinascita in fieri, anche questa un’abitudine, e attecchisce in un terreno dove la modernità ha fatto capolino a fatica ma si è imposta con la necessità della storia.Il Gazometro, o gasometro, ma i romani preferiscono chiamarlo alla francese mutuando il loro gazométre, è stato l’ultimo degli impianti preposti a trasformare il gas derivato dal carbon coke in energia elettrica. Fino alla metà dell’Ottocento, quando la rivoluzione industriale aveva diradato l’oscurità di capitali come Londra e Parigi, metropoli da milioni di abitanti, lo stato pontificio si difendeva dal ruggito delle macchine arroccato nel suo centro da duecentomila cittadini appena. È Pio IX, l’ultimo “papa re”, a dargli un assaggio di futuro con i primi lampioni a gas, frutto di uno stabilimento che portava la luce lavorando il coke. Si trovava nel perimetro del Circo Massimo, scelto senza troppe preoccupazioni archeologiche. In quel periodo stavano cambiando molte cose: le barche che trasportavano le merci sul Tevere venivano spinte dagli ingranaggi a vapore. A Ostiense nel 1863 nasceva un nuovo ponte chiamato San Paolo, poi diventato dell’Industria, per romani “il Ponte di ferro”, quello andato a fuoco qualche settimana fa. Serviva a connettere la linea ferroviaria del porto di Civitavecchia (dove arrivava il carbone) con la stazione inaugurata lo stesso anno, l’attuale Termini. «Nell’Ottocento i piani regolatori delle città agivano sull’intera struttura urbana, c’era una visione unitaria che guardava sia la forma che le funzioni» – spiega Roberto Cassetti, docente di Urbanistica alla Sapienza. «Gli elementi che emergevano dal paesaggio erano teatri, stazioni, addensamenti funzionali attorno ai quali convergevano strade, piazze, tutto doveva essere collegato in un’insieme organico. Un’impostazione che cambierà con l’inizio del nuovo secolo».Per ora però Roma pensava a migliorare la qualità degli scambi, e i nuovi collegamenti tra vie fluviali e terrestri spingevano verso lo sviluppo industriale. Diventata capitale del regno, il processo si arresta, l’arrivo di concentrazioni operaie nel cuore dell’amministrazione savoiarda spaventa. Si costruisce solo il Mattatoio, sempre in zona, rafforzando le reti con un’altra stazione a Trastevere. Sarà Ernesto Nathan, tra i sindaci più amati, a spronare tutto. Con il piano regolatore del 1909 le officine del Circo Massimo chiudono sostituite da tre gasometri costruiti più a sud, a Ostiense, dove passa la ferrovia e si crea il nuovo Porto Fluviale. Poco lontano nascono i magazzini generali per stoccare le merci in arrivo. Poi i Mercati Generali, che attirano grandi e piccole industrie. E una centrale termoelettrica, la Montemartini. Nel 1937 si completa l’ultima torre, quel Gazometro colossale, il più alto d’Europa con i suoi 90 metri. Mentre l’area si popola sempre più. «In realtà il piano di Nathan crea una città fatta di episodi separati, il disegno urbano va in frantumi perché si agisce su alcuni pezzi della città» commenta il professor Cassetti, «il disegno di Ostiense segue la sola logica dell’insediamento, è il periodo in cui nascono le prime palazzine, frutto dell’incontro tra interessi pubblici e privati».Nel dopoguerra il territorio è inquinato e accerchiato dalle abitazioni, vive solo per se stesso. Il metano scoperto da Mattei spegne tutto, non c’è più bisogno del carbone. L’industria se ne va, l’area e gli impianti vengono progressivamente dismessi diventando ruderi eccellenti. Ed è qui che si innesta lo sguardo dell’arte che li ritrae nei paesaggi urbani velati di tristezza di Mario Sironi e Renzo Vespignani. Mentre il quartiere popolare attira il cinema neorealista di De Sica con i piccoli lustrascarpe di Sciuscià, Visconti ci fa pranzare Anna Magnani e Walter Chiari in Bellissima.E Pasolini ambienta lì la morte del suo indimenticato Accattone. È l’inizio di una lenta resurrezione, se non altro immaginifica, che passa attraverso le sparatorie dei polizieschi, le ambizioni frustrate di Oscar Pettinari alias Carlo Verdone, inquilino di un ex lavatoio con vista sul Gazometro. Quando saranno Le fate ignoranti di Ferzan Özpetec ad affacciarsi sullo stesso panorama, il sapore del quartiere è cambiato. Il mattatoio è diventato museo, così come la Montemartini. Una vecchia industria si trasforma nel Teatro India e i muri del quartiere si popolano di murales voluti dal Comune. Molte capitali come Amsterdam e New York hanno recuperato i loro vecchi insediamenti, in modo creativo per lo più. Altre lo faranno. Roma, adesso, ha riallacciato tutti i fili.