la Repubblica, 6 novembre 2021
L’Etiopia sul baratro
La grande Etiopia è oggi davanti a una drammatica crisi esistenziale: il suo avvenire è in gioco. Il conflitto iniziato un anno fa in Tigray, con lo scopo di ricondurre alla disciplina costituzionale una regione ribelle, ha travalicato in queste ore, tanto dal punto di vista militare che da quello politico, i suoi confini locali. Adesso la guerra può travolgere l’intero Paese, causandone la frammentazione, se non l’implosione. La spinta dei localismi, delle identità etniche, mette a repentaglio l’unità nazionale dell’Etiopia che, con i suoi 120 milioni di abitanti e una superficie quasi quattro volte quella italiana, è uno dei colossi africani.
La novità militare è che la controffensiva tigrina è riuscita a portare la guerra fuori dal proprio territorio, aprendo una direttrice di avanzata che minaccia potenzialmente la capitale. Questo rovesciamento di fronte non ha conferme dirette da parte di osservatori indipendenti; ma indirette sì, nell’allarmato appello alla resistenza rivolto dalle autorità di Addis Abeba alla popolazione della città (tre milioni e mezzo di abitanti). Altri fronti, anch’essi fuori dai confini del Tigray, sono in movimento.
Sul piano politico, la notizia è il formarsi di un’alleanza tra nove movimenti d’opposizione guidati dai tigrini e pronti a usare le armi contro il potere centrale. Difficile, per non dire impossibile, valutare la forza militare di questa coalizione; essa però annuncia l’uscita allo scoperto e il coalizzarsi delle spinte centrifughe.
Al centro di questa tempesta perfetta sta la figura tragica del primo ministro etiopico Abiy Ahmed. Lascia attoniti assistere al dramma di cui quest’uomo è al tempo stesso protagonista e vittima. Nel breve volgere di due anni è passato dal premio Nobel per la Pace a una guerra spietata, che coinvolge e colpisce la popolazione civile; dall’abbraccio a rivali, oppositori e potenziali ribelli, all’esplicita volontà di annientamento militare dell’avversario; dallo slancio riformatore e liberale all’arroccamento in difesa dello Stato, che sente minacciato di disgregazione; infine dall’applauso dei suoi pari africani e internazionali, all’isolamento e all’imbarazzo. Non possiamo escludere che l’obiettivo dell’offensiva politico-militare dei leader tigrini sia quello di ottenere la sua caduta, per poi sedere tutti intorno a un tavolo negoziale, con l’obiettivo di accrescere i poteri regionali a scapito di quello centrale.
Quando ascese al potere nel 2018, a 43 anni, il nuovo primo ministro fu una sorpresa. Il suo nome era una scelta di compromesso, che risolse un lungo stallo tra le contrapposte fazioni del partito al potere. Al tempo stesso Abiy Ahmed sembrò un candidato ideale. Per la prima volta un Oromo, esponente dell’etnia maggioritaria che non aveva mai governato il Paese, anzi in passato era stata trattata alla stregua di un ceto servile, raggiungeva la poltrona più alta. Era figlio di un padre musulmano e di una madre cristiana; aveva servito il Paese sia nei ranghi militari che in quelli civili; aveva dedicato tutti i suoi studi alla risoluzione dei conflitti e all’arte della mediazione.
L’inizio fu travolgente: il nuovo leader fece pace con la vicina Eritrea, mettendo fine a una ferita ventennale (di qui il premio Nobel per la Pace); liberò i detenuti politici, tolse il bavaglio ai media, avviò un dialogo nazionale, promosse le donne ai vertici della Stato, ottenne ulteriori successi in politica estera, proiettando l’Etiopia in un ruolo di preminenza regionale e non solo.
Ma non riuscì a sedurre e a cooptare il gruppo che aveva esercitato il potere prima di lui, riunito intorno alla vecchia guardia tigrina, che la sua nomina aveva inevitabilmente emarginato. E con l’andare dei mesi si creò, e presto si allargò, un solco tra il nuovo premier e quanti fondavano il proprio peso politico sulle identità regionali. Questi ultimi usarono le nuove libertà concesse da Abiy Ahmed per alzare la posta delle loro rivendicazioni particolaristiche; mentre, all’opposto, il primo ministro si mise alla ricerca di un modello centralizzatore, che accrescesse il raggio d’azione dello Stato e l’identità nazionale etiopica a scapito di quelle etniche.
La rottura avvenne quando il governo annunciò il rinvio delle elezioni a causa del Covid e il Tigray respinse il provvedimento, aprì le urne regionali e dichiarò illegittima la decisione del potere centrale. Il premier considerò lo strappo costituzionale alla stregua di una secessione e dichiarò guerra.
È da un anno che la parola è alle armi. Una guerra che non ha testimoni, ma solo carnefici e vittime. Testimonianze inconfutabili attestano atrocità da una parte e dall’altra.
Migliaia di innocenti hanno perso la vita. L’uomo che l’ha decisa ha perso l’onore; e il Paese che guida sta perdendo il futuro.